Madri contro Padri. In mezzo i figli; intorno la povertà
San Valentino, la festa degli innamorati. Una delle feste più inutili che mi sia toccato conoscere. Perché, se due sono davvero innamorati, faranno festa tutti i giorni; e se invece non lo sono più, non ci sarà Santo che tenga.
Michele è andato via da Alghero e nessuno sa dove. Non ha retto alla situazione, o forse, alla vergogna. Da qualche tempo, era costretto a dormire in macchina. Esattamente da quando la moglie lo aveva “buttato” fuori di casa, insieme ai suoi pochi oggetti personali. Lanciati dalla finestra, insieme alla sua vita e alla sua dignità. Senza processo, senza possibilità di appello. Un messaggio equivoco, o forse meglio dire equivocabile, su whatsapp, da parte di una collega di lavoro, e quella scena, vista prima di allora solo nei film, è diventata una pagina scura e dannatamente reale della sua vita.
«All’inizio non era così – mi raccontò l’ultima volta che lo vidi, a proposito della moglie – ma poi, dopo la nascita della prima bambina, ha iniziato a cambiare. E’ diventata possessiva e gelosa; nei miei confronti e soprattutto di nostra figlia. C’erano giorni in cui non riuscivo nemmeno a vederla, la mia piccolina. La mattina, dormiva ancora, perché dovevo uscire presto per andare a lavorare a Sassari. Quando tornavo, la sera, invece, le aveva già dato da mangiare e messa a dormire. In più, era ossessionata dall’arrivo in ufficio, di una nuova collega. La centralinista. Una giovane, nemmeno tanto bella, ma con la grave colpa di essere Ungherese; e come tale, secondo lei: una rovina famiglie».
«In questo clima, fra litigi continui e scenate varie, arrivò comunque la seconda bambina. Speravo potesse rasserenarla, ma invece, fu peggio. Quando tornavo, per salutarmi, mi abbracciava gettandomi le braccia al collo; in realtà, lo faceva per annusarmi da vicino e sentire se c’erano tracce di profumo femminile. Un anno fa, prima di Natale, l’incubo. C’era la cena aziendale e Karen, la collega Ungherese, mi manda un messaggio su Whatsapp. Un messaggio scherzoso, un po’ goliardico, come si fa, a volte, tra colleghi d’ufficio. Io ero in bagno a prepararmi e mia moglie, che non perdeva occasione per controllarmi il telefono, lo legge ed equivoca. E’ stato il finimondo. Ho fatto appena in tempo a vestirmi, che ero già fuori di casa. Pronto a vedere i miei occhiali, insieme al telefonino e al computer portatile, frantumarsi sul marciapiede, tra i sorrisi divertiti dei vicini che sbirciavano da dietro le finestre»
Nei giorni successivi, Michele si è arrangiato. Grazie a qualche amico, non avendo i genitori vicino, riuscì a trovare almeno un divano su cui poggiare la testa. Così, ha continuato a lavorare a Sassari, per tornare la sera ad Alghero; con la speranza di poter rientrare a casa e spiegare. Invece, dopo poco, è arrivato il provvedimento del giudice che affidava, come per legge, la casa coniugale alla moglie; almeno fino al raggiungimento della maggiore età delle figlie. Oltre a questo, veniva stabilito che le versasse settecento euro al mese per gli alimenti e che pagasse il 50% della rata del mutuo con il quale, insieme, avevano comprato l’immobile. Quella casa che non avrebbe visto più. Quella che in un attimo di lucida follia, aveva ingoiato, in un colpo solo, i suoi affetti più grandi; i progetti di vita; i sogni e la sua dignità di uomo e di padre.
Sfogandosi, per una situazione che trovava ingiusta e insostenibile, Michele mi raccontò che guadagnava poco più di 1400 euro al mese. Di questi, settecento, andavano via per gli alimenti; quattrocento, per la sua parte di mutuo. Con i restanti trecento euro, avrebbe dovuto mangiare, mettere benzina nella macchina, pagarsi un’altra casa e avere qualche spicciolo in tasca. Almeno per comprare un gelato alle sue piccole. Invece, come ovvio, non ce la faceva. Allora, smise di viaggiare; ma ugualmente non riusciva a permettersi una casa. Se mangiava, non poteva pagare un affitto; se pagava un affitto, non gli rimanevano soldi per mangiare. Fu così, che cominciò a dormire in auto. Fino a quando, la cosa diventò di dominio pubblico e lui non resse alla vergogna. Se ne andò via, il giorno prima che il suo titolare avesse il tempo di dirgli che poteva occupare gratuitamente un alloggio dell’impresa. Troppo tardi.
Oggi, nessuno sa più dove sia andato. Se ad ingrossare le fila dei nuovi poveri senza fissa dimora, o dall’altra parte del mondo a ricominciare daccapo. Resta il fatto che certe cose non dovrebbero accadere, o meglio, dovrebbero avere un epilogo diverso. E soprattutto, una legislazione di maggior tutela. Invece, a oggi, sono molti gli uomini, che in silenzio, subiscono la stessa sorte di Michele. Senza alcuna protezione. Così come accade, peraltro, con i tanti Michele al femminile; che vivono lo stesso problema a parti invertite. Spesso, con complicanze ancora maggiori, quando nel rapporto, subentra anche la violenza fisica.
Le più forti, talvolta, riescono a trovare il coraggio di lasciare casa e figli; per un domani senza alcuna certezza. Nell’indifferenza dei vicini e della società civile. Perfino dei media; che se ne interessano solo se c’è il sangue da mettere in prima pagina. Peccato. Perché è un problema vero; quantomai vivo e reale, che ci riguarda tutti; di cui, purtroppo, invece, non si parla mai abbastanza. E quando, qualche volta lo si fa, spesso è per “strillare” in modo sguaiato e fuorviante. Ad alimentare una presunta guerra di “genere” tra maschi e femmine; che per fortuna, non c’è e non c’è mai stata. C’è, semmai, nella nostra società, un grande analfabetismo emozionale. Quello che, per semplicità, ora definiremo ignoranza. E lei è cieca. Colpisce a caso, tra maschi e femmine, generando inadeguatezza, incomunicabilità, incomprensione e reazioni totalmente sbagliate.
La violenza, l’arroganza, così come la gelosia e la stupidità, non sono prerogative di un genere specifico, ma appartengono alla specie umana; che può essere maschio o femmina. Non creiamo, allora, inutili guerre di genere. Insegniamo, invece, ai nostri bambini, come gestire le proprie emozioni e i rapporti tra le persone; i successi, come le sconfitte; l’esaltazione, come l’umiliazione. Facciamogli conoscere la tolleranza e la comprensione, insegniamogli ad essere empatici, prima che simpatici e brillanti. Condanniamo la violenza, infine, fisica o psicologica che sia; ovunque si trovi e da qualsiasi sesso provenga. Sarebbe già un bel passo in avanti. Li renderemmo protagonisti e beneficiari della nostra crescita, anziché trasformarli in vittime innocenti e incolpevoli delle nostre miserie umane.
Nella foto: immagine d’archivio