Risarcimenti alle imprese in tempo di Coronavirus
L'opinione di Vittorio Guillot
Perché penso che le aziende che sono restate chiuse per via delle disposizioni ministeriali, regionali e comunali connesse al coronavirus, a mio avviso, devono ricevere dei ‘finanziamenti a fondo perduto ‘ e non dei prestiti bancari? Semplice: perché devono essere risarcite per un danno subito non per l’incapacità dei loro titolari a gestire l’impresa ma per una decisione imposta dall’alto per il bene dell’intera comunità, quale è la pubblica salute. Qui il ‘rischio di impresa’ non c’entra e non si tratta di ‘aiuti di stato’ che ‘drogherebbero’ il mercato ma di risarcimenti.
Gli affari, infatti, vanno male, anzi, non vanno affatto, non per gli errori o l’inettitudine dell’imprenditore nel soddisfare i clienti ma perché un Ente Pubblico ha imposto la chiusura delle aziende per un beneficio sanitario di tutta la comunità. Non si tratta neppure di un caso fortuito, di un terremoto o di una alluvione non imputabile a nessuno ma di decisioni prese da qualcuno nell’interesse di tutti. Di conseguenza anche il peso economico non deve ricadere solo sulle aziende chiuse ma su tutta la comunità. Quindi le imprese, su cui è ricaduto un onere spaventoso, devono essere risarcite. Come? Con ‘finanziamenti a fondo perduto’, non con prestiti. I prestiti, infatti, devono essere rimborsati. Il debito verso le banche, quindi, graverebbe in ogni modo e ingiustamente, solo ed esclusivamente sulle imprese.
Ciò anche se le banche si fossero miracolosamente, ma improbabilmente, trasfigurate in una sorta di ‘fate bene fratelli’ od in un ‘esercito della salvezza’ che non richiedessero interessi sui denari prestati o che lo stato, elevatosi a garante, non incaricasse Equitalia di pignorare i beni di eventuali debitori insolventi. A me sembra chiaro che molte aziende, a conti fatti, non se la sentirebbero di assumere quel debito e, quindi, finirebbero per restare chiuse per sempre. Il danno sociale ed economico per l’intera nazione sarebbe pesantissimo perché cesserebbe la produzione di tanti beni e servizi indispensabili. Forse potremmo comprarli all’estero, trasferendo così, in altri Paesi una gran parte della ricchezza nazionale. E’ evidente, inoltre, che le imprese fallite sarebbero costrette a licenziare i dipendenti. Va da sé che, terminato il periodo della “cassa integrazione guadagni”, costoro sarebbero ridotti alla disoccupazione ed alla fame.
Tra l’altro, chiuse molte imprese e con una disoccupazione dilagante, diminuirebbero anche le pubbliche entrate perché diminuirebbero i soggetti da tassare. Perciò, anche per ragioni di sviluppo economico, oltre che per ragioni digiustizia, occorre immettere nel circuito economico molta liquidità e, cioè, tanti e tanti quattrini. Come? Con contributi a ’fondo perduto’ e non con prestiti. Il peso del danno economico verrebbe così spalmato sull’intera comunità che ne ha tratto un beneficio. Se non si vuole, o non si può, raccogliere questa somma, mi pare che l’unica alternativa stia nel lasciar lavorare tutti, dando disposizioni tassative disposizioni igienico-sanitarie e punendo duramente chi non le rispettasse. E’ normale chiedersi dove lo Stato, o chi per lui, potrebbe trovare questa valanga di miliardi. Non sono un esperto di finanza ma penso che si dovrebbe insistere fino all’estremo per ottenere gli ‘eurobond’.
A tal scopo dovremmo far valere l’importanza vitale che l’Italia costituisce per la economia di molti Paesi europei, principalmente per quella tedesca. Penso anche alla emissione di BOT e CCT ed ai tagli degli sprechi, indicati negli studi commissionati a Cottarelli dai governi passati e mai seriamente attuati. Si potrebbe obiettare che così i debiti verrebbero scaricati sul futuro. E’ vero. Pensiamo, però, che, malgrado tutto, milioni di piccole e medie aziende continuano ancora a fare dell’Italia la seconda potenza industriale d’Europa. Purtroppo il fallimento di molte di loro determinerebbe il tracollo forse irreversibile delle nostre strutture socio-economiche, con danni proprio per le future generazioni. Qualcuno giustamente obietterà che anche la salute del titolare dell’impresa e dei suoi familiari trae vantaggio dalla chiusura imposta dall’alto. Certo, verissimo.
Gli enti pubblici, allora, facciano un calcolo, sia pure statistico e forfettario, di quanto è costata la chiusura di esercizi pubblici e stabilimenti per la salute di ogni italiano e del risarcimento che la collettività deve ad ogni impresario e si sottragga quanto è stato impegnato per la salute sua e dei suoi familiari. Si sottraggano anche sia le spese di esercizio che non ha sostenuto, sia quanto ha, o avrebbe potuto, incassare svolgendo una attività ridotta, sia l’ammontare della ‘cassa integrazione guadagni’ erogata dallo stato per il periodo di chiusura al posto degli stipendi dei dipendenti. I calcoli sono complessi ma mica tanto, dato che non è la prima volta che le pubbliche amministrazioni ne hanno fatto di simili, anche quando non esistevano i computers e l’informatica. Comunque, per fare questi calcoli si potrebbe far riferimento alla media dei ricavi contenuti nelle dichiarazioni dei redditi annui. Tre, cinque, di più, di meno? Non saprei, dato che, ripeto, non sono un tecnico. Verrebbero fregati coloro che hanno fatte false dichiarazioni? Ne sarei semplicemente felice. Voi, no?