La via della seta al tempo del Coronavirus
L'opinione di Vittorio Guillot
Leggo che il governo italiano intende cedere una parte del porto di Taranto alla Cina per consentire alla società Ferretti Group, di cui i cinesi detengono la maggioranza azionaria, di impiantavi un cantiere navale per imbarcazioni di lusso. Certo, anche questa potrebbe essere una ottima occasione per realizzare dei posti di lavoro, soprattutto considerata la crisi economica causata dal coronavirus. Gli scambi commerciali e gli affari internazionali non sono da rifiutare, almeno non in linea di principio, a prescindere dallo stato e dal regime politico con cui si effettuano. Ciò perché ad essi è legato, poco o tanto, il benessere dei reciproci popoli. Occorre, però, che gli scambi e gli affari siano vantaggiosi per entrambi e non portino uno dei due contraenti a prevalere sull’altro. Spero, anche se con poca fiducia, che il nostro ministro degli esteri, in questa occasione, abbia tenuto conto di questo aspetto fondamentale. Infatti sussistono fondati motivi per sospettare che, attraverso gli investimenti di capitali e la acquisizione di importanti ‘ strutture logistiche’, come porti, ferrovie, autostrade e canali navigabili, la Cina tenda ad espandere la propria influenza geopolitica e trovare mercati esteri in cui fare lucrosi investimenti e riversare il suo eccesso di produzione industriale. A questo fine le torna utile un ordine mondiale di cui essa costituisca il fulcro economico e politico, in sostituzione di quello imperniato sugli U.S.A.. Rientrano chiaramente in questo piano le ‘nuove vie della seta’, sia terrestre che marittima, il potenziamento della marina militare, l’installazione di basi delle sue forze armate a Gibuti, ossia alla confluenza del Mar Rosso con l’Oceano Indiano. A ciò si aggiunga, il controllo di alcuni porti della Birmania e del Pakistan. Questi, assieme agli approdi dello Sri Lanka e delle Maldive, oltre a costituire delle ottime basi da cui controllare militarmente i mari intorno all’India, assicurano lo sbocco delle vie di comunicazione che dall’interno della Cina vanno verso l’oceano indiano. Fa parte di questo progetto imperialista anche la pretesa di esercitare la sovranità su diversi tratti dei mari orientali. D’altronde il potere assoluto del partito comunista permette di amalgamare senza troppi problemi, almeno apparenti, l’espansionismo militare con quello politico ed economico, attuato anche con i sussidi di stato alle imprese operanti all’estero.
In tal modo le imprese cinesi sono riuscite a battere quelle locali in diversi Paesi africani, come la Nigeria, l’Angola, e l’Etiopia. D’altro canto il dirigismo cinese, che impone le direttive, i limiti di iniziativa e gli obiettivi da raggiungere anche alle aziende private nazionali, è fortemente protezionista dato che concede con grande difficoltà alle ditte straniere di operare in Cina. Queste concessioni generalmente sono fatte anche in cambio di informazioni sulle più moderne tecnologie. Quell’ espansionismo è anche favorito dagli investimenti che Pechino effettua in tante parti del mondo, soprattutto per la realizzazione di importanti opere pubbliche. Tra queste è importantissima la ferrovia che dall’estremo oriente arriva al più grande porto fluviale del mondo, Duisburg, in Germania. Su essa viaggiano milioni di tonnellate di merci. In questo quadro rientra anche la gestione cinese del porto di Atene, il Pireo, collegato all’Europa centrale attraverso la viabilità balcanica, finanziata essa pure dalla Cina. Non va neppure dimenticato il controllo cinese su vasti settori degli scali marittimi di Singapore, Valencia, Malta, Marsiglia, Rotterdam, Trieste e Genova, nonché la
partecipazione alla amministrazione del Canale di Suez e la realizzazione della ferrovia ad alta velocità tra i porti israeliani del Mar Rosso e del Mediterraneo. Controllare una via marittima o gestire un porto, ma anche una rete stradale o ferroviaria, significa consentire al gestore di stabilire quali mezzi e quali merci vi possano transitare, a quali prezzi e a quali condizioni. Teniamo anche presente che molti Paesi a cui Pechino ha dato aiuti finanziari sono stati obbligati ad appoggiare la sua politica.
La Grecia, per esempio, che ha contratto un forte debito, non ha consentito che l’U.E. condannasse la Cina per le violazioni dei diritti umani. Per analoghe ragioni i Kazaki hanno abbassato i toni di protesta per la repressione degli Uiguri, della loro stessa etnia e religione. Anche l’Etiopia si è opposta alla condanna dell’O.N.U. della sopraffazione attuata in danno dei tibetani. E’, inoltre, un caso che Tedros Ghebrenyesus, ex ministro della sanità e degli esteri dell’Etiopia, eletto Direttore Generale della Organizzazione Mondiale della Sanità grazie all’appoggio cinese, all’inizio dell’epidemia del coronavirus abbia ostacolato la chiusura dei traffici marittimi ed aerei con la Cina, che avrebbe subito dei costosissimi contraccolpi? O è una pura coincidenza che quando il suddetto Ghebrenyesus era ministro degli Esteri, l’Etiopia abbia contratto forti debiti con la Cina per la realizzazione di impianti di telecomunicazioni, centrali elettriche, autostrade e ferrovie? Ed è vero o no che i cinesi hanno fatto dell’Etiopia la principale centrale di raccolta delle materie prime africane da inviare alle loro industrie? Ecco perché sono portato a credere che l’O.M.S. e l’Etiopia, ma non solo loro, siano dei feudi della Cina. Francamente vorrei che Conte e Di Maio nel ‘fare affari’ con quel colosso asiatico tengano conto del suo modo di operare ed evitino di asservirgli gli italiani per avere in cambio quello che potrebbe rivelarsi un modesto ‘piatto di lenticchie’.