Alessandra Giudici: riflessioni sulla festa del lavoro
Sei giorni fa, celebrando la Festa della Liberazione e ricordando i fatti straordinari che caratterizzarono la Resistenza, l’Italia ha cercato per l’ennesima volta di sentirsi un Paese normale, una democrazia compiuta e una Repubblica moderna, efficiente e funzionante. L’ha fatto, come ogni anno, cercando di esaltare quei valori identitari che ancora tardano ad appartenere a tutti. Sono i valori che hanno ispirato la Resistenza, che hanno portato alla vittoria della democrazia e alla nascita della Repubblica, perciò dovrebbero appartenere naturalmente a tutti gli italiani.
Noi italiani ancora crediamo, nonostante tutto, alla nostra Costituzione e alle istituzioni repubblicane. Eppure quei valori, così come la rievocazione dei fatti e degli eventi storici cui hanno dato il “la”, ancora ci dividono. Il dato è tanto più singolare in questo preciso momento, caratterizzato da eventi eccezionali come la prima rielezione di un capo dello Stato nella storia della nostra Repubblica, o la costituzione di un governo politico – non tecnico – che pure è sostenuto da forze e partiti che per vent’anni si sono dette antitetiche. Nel momento in cui in maniera più o meno comprensibile e fondata veniamo richiamati tutti a un maggiore senso di responsabilità, che produca uno sforzo a favore della pacificazione politica e istituzionale del Paese, continuiamo a vivere nella totale emergenza democratica.
Siamo in emergenza, e a dimostrarlo è proprio il fatto che ancora i valori su cui fondano la nostra democrazia, la nostra Repubblica, la nostra Costituzione e le nostre istituzioni ancora ci dividono. Materialmente, il segnale più evidente e drammatico dell’emergenza democratica che l’Italia vive da oltre sessant’anni è la totale mancanza di lavoro. Può dirsi matura, compiuta e democratica una Repubblica che si definisce fondata sul lavoro e invece è totalmente paralizzata dalla disoccupazione dilagante? Può dirsi matura, compiuta e democratica una Repubblica in cui le istituzioni vengono percepite come sprecone e inadeguate, e quindi nemiche di una comunità nazionale messa in ginocchio da una crisi spaventosa, il cui indice principale è proprio la mancanza di lavoro?
Se vorrà avere senso, l’armistizio politico su cui fonda il neonato governo Letta dovrà occuparsi per prima cosa di questa emergenza democratica. Smettendo di chiamarla emergenza, dato che dura da anni, e restituendo al lavoro la priorità che gli attribuirono i padri costituenti. Siamo sempre tutti pronti a difenderli a spada tratta il 1° maggio, evocando il loro spessore e la grandezza del risultato che produssero partendo da posizioni ben distinte, quando vogliamo impedire o contrastare ogni tentativo di riforma. Eppure quella Costituzione, che è la base della nostra ancora fragile democrazia e della nostra ancora immatura Repubblica, fonda su valori e fatti che ancora ci dividono. Forse per questo la Costituzione resta lettera morta e il lavoro, valore fondamentale di ieri, oggi non c’è più.
Nel giorno della Festa del Lavoro dico queste cose pensando soprattutto al territorio della Provincia di Sassari. Il Nord Ovest Sardegna ha pagato un prezzo più alto rispetto a tanti altri territori. In un Paese in grave crisi, da noi i dati sull’occupazione e sullo sviluppo parlano chiaramente di emergenza. Questo appello è rivolto a tutte le forze politiche di maggioranza e di opposizione, ma soprattutto a chi ha la responsabilità di governare il Paese. Per troppo tempo siamo stati lasciati soli, a fare i conti con i risultati di politiche industriali inadeguate, politiche di sviluppo inesistenti e ultradecennali mancanze strutturali e infrastrutturali. È ora di risolvere questi problemi per ridare speranza di crescita al territorio e opportunità di lavoro alla nostra comunità. Il sacrificio di rinunciare almeno per un po’ a stare da una parte o dall’altra dovrà essere ripagato con la definitiva uscita dall’emergenza democratica che il Paese attraversa da oltre sessant’anni, di cui la mancanza di lavoro è il segnale più lampante e allarmante.