Articolo 18 Si, Articolo 18 No
L'opinione di Vittorio Guillot
La discussione sulla abolizione dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori scuote fortemente il mondo politico e contrappone coloro che in quella abolizione vedono un mezzo per avviare lo sviluppo economico e chi, al contrario, una dannosa perdita delle tutele dei prestatori d’opera. Io mi sento più radicale di entrambi e penso che la questione potrebbe essere risolta se si applicasse una profonda democrazia economica e si consentisse ai lavoratori di ogni categoria di partecipare alla gestione e agli utili delle imprese. Cosa impedisce che quei lavoratori possano e sappiano individuare gli scopi e le finalità della azienda e programmarne l’attività in modo economicamente valido ed efficiente? Trovate forse strano che gli operai, i quadri, gli impiegati ed i dirigenti possano decidere della vita e del futuro delle aziende da cui traggono il loro pane quotidiano e che fanno vivere con il loro lavoro? Io no, io lo trovo del tutto naturale anche perché i benefici e gli errori graverebbero direttamente sule loro spalle. Perché allora, i rappresentanti delle categorie produttrici non dovrebbero far parte dei consigli di amministrazione? In questa prospettiva, piuttosto, ciascuna categoria di prestatori d’opera dovrebbe certamente svolgere le sue mansioni secondo le proprie capacità ed attribuzioni, partecipare al consiglio di amministrazione ed essere ricompensata in funzione diretta del contributo che fornisce alla produzione. Realizzando un simile tipo di democrazia economica gli stessi lavoratori deciderebbero se espandere o ridurre la produzione secondo le esigenze del mercato e, conseguentemente determinare il numero degli occupati.
A questo punto ogni discussione sull’art.18 sarebbe semplicemente superflua. Da questo sistema escluderei solo le piccole imprese familiari o artigiane, nelle quali il peso specifico dell’imprenditore è nettamente più rilevante di quello ogni altro soggetto. E’ ovvio che in un Paese civile dovrebbero comunque trovarsi delle forme di tutela anche per i salariati e che i sindacati dovrebbero svolgere un importante ruolo di protezione. Lo stesso discorso vale sostanzialmente per i pubblici dipendenti che non producono utili diretti. Io penso, inoltre, che questo sistema contribuirebbe a far sviluppare una economia sostanzialmente sana che, rispettando le leggi di mercato, attirerebbe i capitali necessari per il funzionamento delle imprese. Mi preme sottolineare che ritengo che le leggi economiche della domanda e della offerta e quella del risparmio o, meglio, del “minimo mezzo”, poco citata e mal applicata dagli enti pubblici, siano naturali perché legate alla natura umana tanto è vero che nessuna ideologia o rivoluzione è mai riuscita a cancellarle. Ciò non toglie che, come tutte le leggi naturali, da quelle della genetica a quelle fisiche, l’uomo può, più o meno, studiarle, indirizzarle ed utilizzarle razionalmente secondo le sue finalità. Se accendo una lampadina, ad esempio, utilizzo e indirizzo per un mio scopo le leggi dell’elettricità. Nei sistemi comunisti, fortunatamente deceduti, gli unici che dirigevano le leggi economiche erano i capi partito, con l’esclusione assoluta del popolo più autentico. Nel sistema capitalista, invece, esse sono governate autoritariamente dai soli capitalisti, soprattutto da quelli legati alla finanza e alle banche. Costoro non esitano a destabilizzare il mondo per i propri interessi e speculazioni. Aggiungo che il sistema sociale che mi piace non esclude il diritto di proprietà privata e dei suoi profitti, che non sono un furto, o meglio non lo sono sempre e necessariamente. Esso auspica addirittura che i profitti siano investiti in modo produttivo e, quindi, “socialmente utile”. Niente vieta, infatti, che la proprietà privata sia il frutto del lavoro e del risparmio.
Fra l’altro non è escluso che anche gli operai possano diventare “capitalisti”, magari acquistando azioni della azienda in cui lavorano. In questo sistema, piuttosto, la guida delle imprese verrebbe affidata a tutti i produttori. In altri termini la socializzazione a cui mi riferisco riguarda la partecipazione alla gestione dell’impresa, la sua produttività e la redistribuzione dei redditi secondo le capacità, i meriti e le responsabilità. Perciò non ha niente a che fare con la ingiusta e fallimentare collettivizzazione comunista. Qualcuno con cui ho parlato di questi argomenti mi ha detto che queste mie idee non sono affatto originali poiché la socializzazione della produzione venne proposta perfino dalla Repubblica Sociale Italiana. Dico che la cosa non mi turba affatto perché mi sento assolutamente contrario ad ogni tipo di razzismo e di totalitarismo. D’altra parte queste idee sono anche ampiamente conformi alla dottrina sociale della Chiesa Cattolica, esposte in particolare da Toniolo e dalle varie Encicliche Papali, a partire dalla Rerum Novarum e fino alla Centesimus Annus. Aggiungo che attualmente la partecipazione dei lavoratori alla gestione ed agli utili è ampiamente praticata sopra tutto in Germania, con ottimi risultati.
Francamente non capisco perché questo tipo di riforme non sia stato sostenuto dalla Democrazia Cristiana, che ha governato per circa 50 anni e che pure diceva di richiamarsi alla morale sociale cattolica ma che, di fatto, si è lasciata stritolare dagli opposti estremismi marxisti e liberisti. Preciso anche che né ai tempi della così detta Prima Repubblica né mai è stata concretamente attuata una politica che, al di là delle parole e degli enunciati costituzionali, volesse realizzare una profonda collaborazione tra capitale e lavoro e desse a quest’ultimo la centralità che gli spetta. D’altronde, mi chiedo, la partitocrazia avrebbe forse potuto permettere un simile progresso sociale che, se coerentemente attuato, le avrebbe fatto perdere le sue posizioni di potere in favore delle categorie economiche? In conclusione dico che mi sembra di essere un sinistro seguace del comunista Mao almeno quando affermava che “non importa se il gatto è nero o bianco, interessa se acchiappa i topi.” In questo caso i topi da acchiappare sono la giustizia sociale e lo sviluppo economico secondo un sistema che non ha proprio niente a che fare con lo statalismo comunista.