Burocrazia ai tempi del Coronavirus
L'opinione di Vittorio Guillot
Sento dire che per la ripartenza economica successiva alla gravissima crisi sanitaria prodotta dal ‘coronavirus’ sia necessario anche riformare a fondo la burocrazia che impastoia le attività produttive. Si dice, in particolare, che occorra renderla più comprensibile per chiunque sappia leggere e scrivere e darle agilità e sveltezza riducendo quanto essa ha di superfluo ed antiquato. Credo che sia difficile per chiunque negare questa necessità, se solo pensiamo ai quintali di carta ed al tempo necessari per presentare la richiesta per avviare qualsiasi attività artigianale, commerciale o professionale. Però abolire ogni pubblico controllo sulle attività di rilevanza sociale ed affidarle ai soli imprenditori mi sembra una palese assurdità. Eppure ho sentito anche questa proposta. Io, infatti, non credo che sia né logico né prudente affidare solo ai ‘principali’ la applicazione delle disposizioni che regolano la sicurezza, la sanità e la regolarità delle prestazioni di lavoro.
Oggi si parla in particolare di controlli sulla sicurezza igienico-sanitaria contro la diffusione del coronavirus nei luoghi di lavoro. Io parlerei anche della necessità di verifiche sul lavoro ordinario e straordinario effettivamente prestato dai dipendenti che, già da tempo, sono sfruttati a causa degli inefficienti sistemi di pubblico controllo. E’ troppo rendere molto più diffuso per questo scopo l’obbligo di ‘timbrare il cartellino? Io, comunque, credo che, per evitare un eccessivo impegno per le pubbliche istituzioni, sarebbe opportuno dare una concreta autorità agli stessi lavoratori per la effettuazione anche di quei controlli. Come? Riconoscendo giuridicamente ai lavoratori la caratteristica di collaboratori dell’imprenditore. In questa ottica dovrebbero partecipare alla gestione ed agli utili delle imprese in modo proporzionale al contributo dato alla produzione. Così sarebbero effettivamente ‘responsabilizzati’ anche nella amministrazione del personale.
Di conseguenza, non solo cercherebbero le soluzioni più valide per far prosperare le aziende alle quali è legato il loro pane quotidiano ma pretenderebbero il rispetto dei loro diritti, compreso quello alla salute. Certo è che il coinvolgimento dei lavoratori nella vita dell’azienda sarebbe profondissimo e impedirebbe al “padrone” di commettere abusi e discriminazioni. In altre parole, nelle imprese così cogestite e “socializzate”, non vi sarebbero quei padroni assoluti che spesso si identificano con i capitalisti. Evidentemente questo mio modo di ragionare è lontanissimo sia dal liberalismo sfrenato che dal socialcomunismo. Penso, piuttosto, che occorra puntare all’interesse comune e, quindi, alla collaborazione tesa a creare le condizioni per cui ognuno possa sviluppare i propri talenti in vantaggio suo e degli altri. Escluderei dalla co-gestione solo le imprese artigiane, in cui il lavoro e il capitale del “titolare” avrebbero una rilevanza preponderante sulla attività dei dipendenti che, senza dubbio, dovrebbero essere comunque tutelati da un autentico ‘stato sociale’.
Sono anche convinto che, con la partecipazione dei lavoratori agli utili e alla gestione, le aziende sarebbero più produttive e competitive e, quindi, attirerebbero gli investimenti dei risparmiatori. Inoltre si otterrebbe una forma di democrazia economica e sociale molto alta, di cui beneficerebbe la democrazia “tout court” perché, eliminato lo strapotere dei “padroni”, nessuno potrebbe imporre con ricatti le sue indebite pretese ai lavoratori.