«Crisi migratoria e democrazia»
L'opinione di Guido Sari
Esistono dei fenomeni storico-sociali che più di altri ci dovrebbero spingere a riflettere sulla loro gestione da parte di chi ci governa. Il problema dei migranti è uno di questi. Al di là della sua intrinseca gravità, è utile osservare come questo problema riesca a mettere in evidenza, con l’efficacia di un mezzo di contrasto, interessi, superficialità, sicumera, ambiguità presenti nell’approccio ad esso da parte della classe politica e degli organi di informazione, specie quelli più vicini al potere. L’attuale, impressionante flusso migratorio viene quasi unanimemente presentato come un fenomeno epocale che vede migliaia e migliaia di disperati fuggire dalla guerra e dalla fame. Le spiegazioni che ne vengono date sono prevalentemente umanitaristiche, in cui il pedale dell’emotività è costantemente abbassato. Pertanto giornali ed emittenti televisive parlano di profughi che per sfuggire alla guerra e alla fame tentano di raggiungere i paesi europei per via terra o per via mare, in quest’ultimo caso salvati quotidianamente da morte certa grazie al pronto intervento di navi italiane o europee che si spingono quasi sino alle coste africane pur di soccorrerli.
La tragedia degli oltre trecento migranti morti in un naufragio al largo delle coste di Lampedusa, nel 2013, mise in evidenza la necessità, per usare le parole dell’allora “premier” non eletto, Enrico Letta, di portare al centro dell’attenzione europea una gestione “solidale del fenomeno delle migrazioni” e suscitò il bergogliano rimprovero (“vergogna! vergona!”) di imprecisata destinazione, forse valido erga omnes o forse diretto ai soli italiani, che sembrò quasi segnare cronologicamente l’assunzione da parte del governo italiano del dovere di salvarli tutti indiscriminatamente e di dar vita a quelle operazioni di soccorso dal nome roboante che tutti conosciamo. Se dapprima si sperava, o si credeva, che una ridistribuzione dei migranti nei paesi europei avrebbe reso meno drammatica la posizione dell’Italia, la più esposta al flusso migratorio, oggi apparve ben chiaro che gli stati europei non hanno alcun interesse ad una accoglienza indiscriminata. Ma oggi è anche evidente che la sottovalutazione delle conseguenze negative di una simile politica (che si rifiuta di riconoscere uno stato di emergenza anche quando questa è percepita e vissuta come tale dai cittadini), a cui si uniscono il non uso della vecchia prudenza del pater familias (intesa anche come criterio di legittimazione dell’azione politica) e la continua manipolazione della verità (che non fa volutamente distinzione tra i veri profughi e la massa dei migranti economici) cominciano a suscitare diffidenza e preoccupazione, accresciute dalla consapevolezza dell’uso strumentale del buonismo falsamente umanitarista. Suona infatti paradossale che ci si preoccupi solo di quelli che vengono salvati (in genere in ottime condizioni fisiche e dotati di telefonino satellitare) e non si parli con pari passione di quelli che restano nei paesi colpiti dalla guerra e dalla fame. E ancor più paradossale è che l’Europa non faccia nulla per evitare guerre in regioni a lei tanto vicine e che non attivi campagne per migliorare le condizioni di vita dei paesi poveri dell’Africa.
L’approccio emotivo fa sì che chiedersi se siano da “salvare” tutti o solo gli autentici profughi, cioè quelli che veramente fuggono dalla guerra, risulti cinico ed inquadrabile in orientamenti politici stigmatizzati da governo e dai suoi sostenitori (siano editori della medesima area che aspiranti a incarichi “umanitari” ben retribuiti). Quella stessa classe politica che senza fare una piega decide tagli alla Sanità, con i famigerati provvedimenti sull’appropriatezza delle prescrizioni, che finge di non vedere le code interminabili e gli slittamenti di mesi per visite specialistiche cui devono sottostare i cittadini alla faccia della tanto sbandierata prevenzione, quella stessa classe politica afferma con “commosso” orgoglio che la priorità deve essere salvare vite umane. Encomiabile.
Peccato che il principio perda valore se non è valido per tutti, cioè anche per i “semplici” cittadini. Ancora una volta la coerenza non sembra far parte delle qualità possedute dai nostri governanti. I massimi rappresentanti delle cariche dello stato possono infatti essere presenti per i funerali di un migrante morto a causa di un diverbio con un nativo, però snobbano nativi trucidati e stuprati da un migrante. E lo fanno senza capire che il messaggio che ne vien fuori non è quello che si vorrebbe far passare di una classe politica che didatticamente promuove il rispetto per l’altro, ma quello della più assoluta mancanza di rispetto per il cittadino che qualora vittima di un atto di violenza perpetrato da un migrante vede la propria disgrazia considerata come un semplice danno collaterale non meritevole di attenzioni istituzionali.
A turbare questa lettura umanitaria ci pensa purtroppo la dura realtà con casi palesi di sfruttamento affaristico del fenomeno migrazione. Inoltre il continuo aumento di arrivi di migranti provoca problemi sociali di sicurezza che solo i più politicizzati affermano di non vedere. La gente comincia a non poterne più dei disagi causati da tale situazione e a riflettere sui vantaggi che ne vengono invece a una fascia ristretta di persone: quelle che beneficiano delle risorse comunitarie per accogliere i migranti stessi, come per esempio associazione assistenziali o cooperative legate al governo. Comincia a vacillare la chiave di lettura sentimentale emotiva della realtà dei fatti proposta dal potere e dai media. Si fa strada, perché vissuta sulla propria pelle, l’idea dell’invasione e dell’inadeguatezza dei provvedimenti istituzionali, quest’ultima attribuita a conclamata incapacità o a motivi d’interesse. Ed è proprio il concetto di invasione che ci propone la diversa percezione che separa con distanza incolmabile la gente della strada (la gente comune, quella che appunto cammina per la strada senza scorta o che subisce la politica dell’inclusione diffusa o dell’improvvisa trasformazione di spazi e luoghi pubblici in improvvisati centri d’accoglienza) dai governanti, le cui considerazioni, prevedibilmente mai allarmistiche, sono sempre tese a spiegarci i vantaggi di tale situazione, di qui quel tentativo di stupro suasorio che è il termine “risorse”, riservato ai migranti.
Arrivato a questo punto il lettore partiticamente impegnato mi avrà già sicuramente etichettato e collocato nell’area politica da lui avversata. Giudichi pure il lettore come può, non mi interessa il giudizio di chi, nemico della dialettica, si preclude da sé gli strumenti per interpretare la realtà, m’interessa invece il lettore politicamente impegnato. Quello che non è manicheo, che apprezza e ricerca la dialettica al fine di dare alla sua idea di politica la possibilità di migliori realizzazioni, che non disdegna di sottoporla al vaglio di una prospettiva diversa. Le discussioni sui migranti in qualsiasi modo si voglia considerare questi ultimi (clandestini, profughi, furbi fannulloni, poveri infelici, invasori, terroristi effettivi e potenziali) mette in luce nel modo più chiaro il divario tra ciò che pensa e vuole il popolo e ciò che pensa e vuole chi governa. Appare innegabile la volontà di chi detiene il potere di continuare nelle sue scelte senza tener conto delle lamentele e richieste del gente. Scrivo della gente e non del popolo, perché purtroppo oggi anche il lettore intelligente è tanto condizionato dai mezzi di persuasione di massa da vedere nel termine popolo una manifestazione chiara di “populismo” senza avvedersi d’aver accettato passivamente il rivolgimento semantico che attribuisce a “populismo” unicamente il significato di demagogico, dimenticando che su di esso si fondava il pensiero della sinistra ancora per gran parte del secolo scorso e che di essa quel riferimento privilegiato al popolo rappresentava certamente l’aspetto ideologico più valido.
Nella percezione di coloro che ancora credono nella politica come buon governo, i governanti attuali sembrano non sentire il dovere di onorare il contratto sociale, disattendendone l’imperativo prioritario che prevede la salvaguardia dei diritti dei cittadini da parte del potere. I sorrisini di sufficienza (alcuni parlamentari sembrano quasi essersi specializzati in tale esercizio), la supponenza, la smaccatamente finta sicurezza con cui il potere si contrappone e ribatte alle opinioni/richiesta della gente desiderosa di sicurezza e giustizia, sconcertata per di più da sentenze che sembrano tutelare più i nuovi arrivati che i cittadini, non fa che creare un divario sempre più grande tra potere e paese reale. La storia però non sempre va secondo le nostre aspettative, possono infatti verificarsi anche fenomeni non previsti. E se i cittadini si svegliassero e smettessero di considerare la politica come una suddivisione tra destra e sinistra (visione perpetuata da chi pratica la politica come mestiere superpagato e che ha interesse ad alimentare una tifoseria partitica da stadio tra le frange intellettualmente più sprovvedute) e cominciassero a vederla invece come distinzione tra basso e alto, tra il popolo che paga, perennemente sfruttato e una classe super privilegiata e troppo spesso parassita. Allora forse pretenderebbero un nuovo contratto sociale più equo, più rispettoso dell’opinione generale, dei diritti delle persone, dove qualche interessato contentino ai diritti civili non serva da pretesto per negare più urgenti diritti sociali, in cui i doveri siano assicurati da leggi non ambigue, per evitare interpretazioni e discrezionalità eccessive. Un contratto capace di garantire sempre che la sovranità appartiene al popolo e non a oligarchie preoccupate dei propri interessi o peggio a oligarchie non elette, che si servono di un’informazione suasoria e non veritiera per turlupinare i cittadini, cioè proprio coloro da cui hanno ricevuto il mandato per governare al meglio il paese.
Ma forse qualcuno potrebbe obiettare che il fenomeno migratorio è un fatto epocale inevitabile, sintomo di una crisi che durerà decenni. Certo le bugie, a forza di essere ripetute, possono acquistare l’aspetto di verità, ma restano ontologicamente bugie. Non ci sarebbe stato nessun fenomeno epocale se non si fosse voluto destabilizzare scientemente il Medio Oriente, se non si fosse portata con tanta determinazione la “democrazia” in Irak e in Libia (e con quale velocità, se si pensa alla lentezza con cui si “democratizza” l’Isis) e che si continua a voler portare anche in Siria. Se l’Europa fosse stata qualcosa di più di un assemblaggio di paesi di sempre più ridotta sovranità e privi di politica economica autonoma, inaffidabile trenino a trazione tedesca, e se l’Italia avesse contato più della famosa carta da gioco e se entrambe si fossero imposte all’alleato americano opponendosi alla esportazione di democrazia, tutelando i propri interessi comunitari e nazionali, non avremmo avuto questa crisi migratoria, che soprattutto l’Italia non sa gestire, limitandosi (perché questa è l’unica soluzione che è riuscita a trovare) a ripartire i migranti nei comuni del suo territorio, escogitando percentuali e facendo leva sul sentimento di responsabilità e solidarietà, senza tenere in conto i limiti imposti dalla densità abitativa del paese. Il concetto di sostenibilità in questo caso viene opportunamente rimosso.
Se Europa e Italia fossero state meno servili, forse il piccolo Aylan non avrebbe fatto piangere le anime sensibili, monopolizzandone tutte le lacrime, tanto da non lasciarne nessuna per i bambini massacrati nello Yemen da una guerra voluta da uno Stato, l’Arabia Saudita, a cui l’Onu ha affidato la direzione della Commissione per i diritti umani grazie alla sua antica alleanza con gli Usa. Questa Europa, forte coi deboli e ossequiente coi forti, pedissequamente sostenitrice delle scelte americane, potrebbe però essere la prossima parte del mondo ad essere destabilizzata, qualora gli interessi nazionali d’oltreoceano lo richiedessero. La sua inettitudine di fronte al problema dei flussi migratori è un po’ la prova generale della sua capacità di opporsi ad una destabilizzazione su scala più vasta.