Ecco la pillola contro la calvizie: i capelli ricrescono in quattro mesi

Ricercatore del Columbia Medical Center di New York annuncia su Nature la scoperta. Il principio attivo in grado di curare l'alopecia autoimmune (non quella comune) si chiama Ruxolitinib ed è già in uso nel trattamento di alcune patologie tumorali. Gli scienziati assicurano: "Avrà un impatto positivo sulla vita delle persone".

Stop alla calvizie? Un primo passo importante è compiuto: arriva, infatti, la cura per la alopecia autoimmune, una patologia che affligge molti pazienti e per la quale fino ad oggi non esisteva alcuna terapia efficace. Lo ha annunciato sulle pagine di Nature Magazine il ricercatore americano Raphael Clynes del Columbia University Medical Center di New York. Si chiama Ruxolitinib il principio attivo che è in grado di rigenerare la crescita dei capelli in soli quattro cinque mesi ed è stato testato nell’ambito di un programma sperimentale su tre soggetti affetti dalla malattia. I pazienti hanno mostrato una risposta positiva confermando i risultati già raggiunti della sperimentazione del farmaco sulle cavie.

Ruxolitinib nella cura contro l’alopecia autoimmune. Il Ruxolitinib è già in uso in Europa e negli Stati Uniti nel trattamento del cancro al midollo osseo. Alla base della scoperta c’è un lungo studio finalizzato a identificare le cellule responsabili dell’attacco al follicolo del capello, che, rintracciate dagli scienziati, hanno permesso di trattare efficacemente la patologia. La cura con Ruxolitinib, non è efficace, però, nei casi di alopecia comune, il tipo di calvizie più diffuso, proprio perché connesso a disfunzioni ormonali e non all’auto- aggressione del sistema immunitario.

“Abbiamo iniziato a testare il farmaco in solo in alcuni pazienti, ma se continua ad avere successo e a rivelarsi  sicuro, avrà un importante e positivo impatto sulla vita delle persone affette da questa malattia.” Ha dichiarato il responsabile della ricerca  Raphael Clynes. I soggetti che ne sono afflitti, infatti, vivono spesso la condizione della malattia con un profondo senso di disagio. Siamo di fronte ad un sorprendente risultato, quindi, che potrebbe influire molto sul benessere psicologico e l’integrazione sociale di chi ne soffre. Tuttavia, fanno sapere gli esperti, occorrono ancora anni di studi e perfezionamento perché il risultato possa dirsi definitivo.

Tratto da www.fanpage.it

Angela Marino, 18 Agosto 2014