Essere John Carta
Essere stato il primo uomo a paracadutarsi sul tetto del World Trade Center. Essere stato uno dei primi a sperimentare una tuta alare. Essere stato in Vietnam. Essere nato ad Alghero. Questo, ed altro, significa essere John Carta.
Il 29 settembre del 1990 ad Alghero stavano tutti, chi più chi meno, festeggiando il patrono della città, San Michele. Negli stessi istanti, però, un algherese si trovava dall’altra parte del mondo, in California, a bordo di un Lockheed P2V Harpoon, un aereo della Seconda guerra mondiale, insieme ad altre sette persone. E già questo, suona un tantino strano. Se poi quell’aereo, un bimotore da trasporto ad ala bassa progettato e utilizzato per voli civili, aziendali, agricoli, militari, insomma adatto a tutto, ma proprio tutto, se poi quell’aereo si trovava sopra il Clear Lake a fare l’unica cosa per cui non era stato progettato, cioè volteggiare nel cielo come se fosse un foglio di carta, allora la situazione si fa davvero incomprensibile. E lo sarebbe eccome, incomprensibile, se solo quell’algherese non si chiamasse John Carta.
Giovanni Carta era nato ad Alghero il 7 gennaio del 1946 ed era diventato John qualche anno dopo, dodici per l’esattezza, quando si era trasferito negli Stati Uniti con la zia, prima che questa lo lasciasse completamente solo in quella terra di sogni e incubi che è l’America. Aveva così cominciato a fare qualsiasi lavoro gli capitasse finché, ormai maggiorenne, non decise di mettersi un bel berretto verde in testa e arruolarsi nell’esercito americano come paramedico nei SOC – Special Operations Capable.
«JOHN NON CREDEVA DI POTER SERVIRE IL PROPRIO PAESE UCCIDENDO I PROPRI SIMILI, PREFERÌ SALVARE VITE»
Ed è così che John passò due anni della sua vita, dal 1967 al 1969, scorrazzando su e giù per il Vietnam al comando di un Bell UH-1 Iroquois, elicottero simbolo di quella guerra assurda, a raccattare feriti con pallottole conficcate dovunque, arti amputati, in mezzo al sangue, alle urla, alla disperazione, ai deliri e alla paura, trasportandoli a tutta velocità verso il campo ospedale più vicino, cercando di farli tornare a casa tutti interi, o quasi, e riuscendoci spesso, molto spesso, tanto che al suo ritorno venne decorato con la Croce di guerra al valor militare, un grazie e un arrivederci. Anzi, goodbye. Come molti reduci, John faticò a reinserirsi nella società e dovette tornare a fare quello che aveva fatto fino alla poco prima della sua partenza: tutto. Lavorò come operaio, poi mise su una ditta di carpenteria. Lo sguardo di John, però, era sempre rivolto verso l’alto. Tornò così a sfruttare la sua abilità di pilota, passando dal trasporto di feriti disperati a quello di ricchi turisti, e dai cieli pesanti del Vietnam a quelli lucenti e spumeggianti di Manhattan.
«SOME PEOPLE LIKE TO GO ON A SUNDAY DRIVE. I LIKE TO JUMP OUT OF AIRPLANES»
Con queste parole Mr. Carta, trentacinquenne reduce del Vietnam ed ex carpentiere, cercava di spiegare alla polizia che lo stava arrestando perché diavolo si fosse appena lanciato da un aereo, da un’altezza di circa tremila metri, per poi atterrare sul tetto di un edificio, e non di un edificio qualsiasi: del più alto di New York. Quell’algherese mezzo americano e mezzo tupamaro, con i suoi capelli ricci e neri, un paio di folti baffi, neri pure quelli, e un fumogeno legato alla caviglia, aveva pensato bene di paracadutarsi sul tetto della torre sud del World Trade Center, alta 417 metri. Era il 30 settembre 1981 e lui era il primo essere umano a fare una cosa del genere. «Ho guardato il World Trade Center per anni, mi offriva la sfida più grande», the greatest challenge. Ovvio, no? «È stato come guidare la macchina», sì certo. «Mi sono davvero divertito, ne è valsa la pena». Non fece il nome del pilota, che avrebbe rischiato di perdere la licenza. Il 31 ottobre fu chiamato a presentarsi di fronte alla Criminal Court di New York con l’accusa di illegal parchuting. Pagò una multa di 50 dollari: esigua, se paragonata alla sua impresa. Insignificante, di fronte alla sua voglia di impossibile.
«I DID IT FOR THE SAKE OF DOING IT»
Il ponte di Verrazzano – Verrazano Narrows Bridge – è uno dei ponti più famosi della Grande Mela. Si chiama così in onore di Giovanni da Verrazzano, esploratore e navigatore italiano del XVI secolo, il primo europeo a raggiungere la foce del fiume Hudson, e quindi la terra sui cui sarebbe sorta The City. Verrazzano sapeva che la Terra era rotonda e lo sapevano anche gli ingegneri che, quattrocento anni dopo, per progettare il ponte sospeso più lungo del mondo – almeno fino al 1981 – dovettero tener conto anche della curvatura del pianeta. L’opera collega i quartieri di Brooklyn e Staten Island ed è famosa per essere il punto di partenza della Maratona di New York, oltre che per essere stata l’ambientazione di molte scene del film La febbre del sabato sera. I suoi piloni si possono scorgere da molte zone della città. Ed è proprio su uno di quei piloni, il più alto ovviamente, che il sergente Paul Riley, mentre si trovava in servizio a bordo di una barca della polizia sul fiume Hudson, non credendo ai suoi occhi, in un martedì di dicembre del 1982, vide un uomo. Un uomo con i capelli ricci e neri. Un uomo con dei folti baffi, neri pure quelli. «Come ha fatto a salire lassù? – si dev’essere chiesto – e come diavolo ha intenzione di scendere?». La risposta non tardò ad arrivare, ed era la stessa a entrambe le domande: con un paracadute, sergente! Con un paracadute! Come sennò? Giovanni Carta da Alghero, che in America tutti chiamavano John e che a suon di salti nel vuoto era ormai diventato “Birdman”, era pronto a sfidare la sorte. Ancora una volta.
Via! Go!
Così Mr. Carta, dopo essersi paracadutato da un aereo sulla torre più alta del ponte di Verrazzano, si lanciò da quel punto con un secondo paracadute, indossando una muta, e tuffandosi nel fiume Hudson. A dicembre. Il sergente Riley diede manetta al motore della sua barca e lo andò a recuperare. Gli offrì una coperta, John la rifiutò. «Why did you do that?» gli chiese. «I did it for the sake of doing it», l’ho fatto per il gusto di farlo, rispose quel pazzo. Anche in quell’occasione, Mr. Carta fu arrestato. E anche in quell’occasione, fu il primo essere umano a fare una cosa del genere.
GRAND CANYON
Nel film d’azione xXx, uscito nel 2002 per raschiare ancora più in profondità negli abissi della tamarraggine più assoluta, c’è una scena in cui il protagonista Vin Diesel si lancia con una Chevrolet Corvette dal Foresthill Bridge, un ponte situato sopra il North Fork American River, per poi saltare fuori dalla macchina e paracadutarsi fino a terra. Una roba da film, certo. Una roba da pazzi esaltati, certo. Peccato che nel 1984, un uomo fece più o meno la stessa cosa. Sempre su quel ponte, ma mica era un film. Era la vita vera, quella che se cadi, è finita. E quell’uomo non era pelato, come Vin Diesel, ma aveva dei capelli lunghi, ricci e neri. E sì, aveva anche dei folti baffi, neri pure quelli.
«John Carta. Ancora lui». Questo deve aver pensato uno dei due ranger che, quella mattina, corsero verso il Foresthill Bridge allertati da un passante che chiamò farneticante lo sceriffo. «Qualcuno ha bloccato il traffico sul ponte con dei fumogeni e dei fuochi, cazzo. E su quel fottuto ponte c’era montata una rampa, una rampa capito? Quando cazzo l’hanno montata quella rampa? E che cazzo ci fai con una rampa che ti porta dritto nel vuoto? Ecco cosa ci fai! Un pazzo è salito su una cazzo di moto da cross gialla, aveva pure il numero, 590, ho visto il numero, sì sì credo che fosse proprio 590, un pazzo con dei capelli neri, ricci come un diavolo, con una bandana rossa che glieli teneva, non aveva casco, aveva i capelli al vento, quel diavolo ha dato gas alla moto, a tutta velocità, ha imboccato la rampa, proprio quella cazzo di rampa, si è lanciato nel vuoto cazzo! Nel vuoto! Saranno 200 metri, credevo si volesse ammazzare! Poi ha mollato la moto, quel rottame si è sfracellato al suolo, è esplosa in melli pezzi, olio e benzina e fiamme! Ma lui no! Lui ha aperto un cazzo di paracadute, SFRAN!!! Così ha fatto, con uno strappo, SFRAN! E mentre quella cazzo di moto bruciava sotto i suoi piedi lui volava, volava, volava! Un uccello, he looked like a Birdman! È planato sulle querce e sui pini e poi è atterrato! Così, come se fosse sceso dal letto alle dieci di mattina! Poi non so che cazzo di fine abbia fatto, è scappato chissà dove, chissà, non so. Cazzo!»
Già. Era tutto molto chiaro. Dei suoi complici avevano innescato dei fuochi per fermare il traffico, avevano montato la rampa, sistemato la moto e piazzato una macchina per la fuga sotto il ponte. John aveva indossato il paracadute e l’imbracatura, era salito in sella alla moto e accelerato a più non posso verso la rampa sul ponte, volando via nel nulla. Mentre era in aria, Carta aveva mollato la moto e acceso una telecamera. Il suo paracadute si era aperto con un forte strattone e John era planato nel cielo, passando sopra gli alberi. La moto era caduta sul fondo del canyon provocando un forte rumore metallico e un’esplosione, distruggendosi in mille pezzi. Il rumore era arrivato fino a John e si era mischiato al gorgoglio del fiume e all’adrenalina.
I due ranger erano arrivati al ponte intorno a mezzogiorno. Uno di loro registrò il numero di telaio di quel che rimaneva della Yamaha gialla ormai distrutta sul fondo della gola. L’altro vide la rampa e un rimorchio nascosto vicino alla strada verso il Lake Clementine. Il rimorchio era registrato a nome di un uomo. Quell’uomo si chiamava John Carta. Ancora lui.
WHAT A SHAME, JOHN CARTA
Dopo questi tre assurdi episodi, Giovanni Carta da Alghero aveva ormai, a tutti gli effetti, completato la sua trasformazione in John “Birdman” Carta, from Sacramento, California. La voglia di quel pazzo Icaro non si placò certo a quel punto. Ormai quarantenne continuò a lanciarsi da elicotteri e aerei da e verso i posti più belli e strani del mondo. Si lanciò dalla Torre di Pisa e fu il primo uomo ad atterrare in cima a una mongolfiera. Sperimentò un nuovo tipo di tuta alare che ispirò, negli anni successivi, un vero e proprio simbolo dello sport estremo come Patrick de Gayardon.
Il 16 agosto del 1990, John decise di lanciarsi dal ventisettesimo piano dell’America President building di Oakland, California, mentre l’edificio era ancora in costruzione. Il paracadute, però, lo tradì per la prima volta. Poco male. Mr. Carta se la cavò anche in quell’occasione, con fratture multiple alla schiena, molti lividi e un po’ di paura.
Poco più di un mese dopo, il 29 settembre, giorno di San Michele, ancora mezzo rotto, John accettò di partecipare a un’esibizione acrobatica sui cieli della Northern California, vicino a Sacramento, a bordo di un Lockheed P2V Harpoon, un aereo della Seconda guerra mondiale, insieme ad altre sette persone. E questo, ormai, non suona più strano. E il fatto che l’aereo fosse un bimotore da trasporto ad ala bassa progettato e utilizzato per voli civili, aziendali, agricoli, militari, adatto quindi a tutto, proprio tutto, tranne che a fare quello che stava facendo, cioè volteggiare nel cielo come se fosse un foglio di carta, anche questo, ormai, non suona più strano. E anche il fatto che mentre tutti, ad Alghero, festeggiavano San Michele, chi più chi meno, Giovanni Carta si trovasse su quell’aereo a compiere l’ennesima, ordinaria e straordinaria follia, no, non suona più strano neanche questo. Ma il fatto che quel giorno l’aereo andò in stallo, finendo per schiantarsi come un meteorite nell’acqua del Clear Lake; il fatto che morirono tutti: il pilota Douglas M. Lacey, 40 anni, di San Rafael; Antonin L. Nixon, 18, San Rafael; Richard A. Freitas, 56, Sebastopol; Roy H. Burchell, 58, Petaluma. Il fatto che morì anche John Carta, 44 anni, Alghero. Questo sì, suona terribilmente strano.
A John Birdman Carta furono concessi i funerali di stato. L’amico Jonathan Bowlin sparse parte delle sue ceneri a El Capitan, nel parco nazionale di Yosemite. Durante un lancio, ovviamente. Il resto di John, Giovanni, riposa ad Alghero.