La giornata mondiale contro l’AIDS a oltre trent’anni dalla sua scoperta
La ricorrenza annuale, ogni 1° di dicembre, della giornata mondiale della lotta all’AIDS è sempre una buona occasione non soltanto per esporre fiocchetti rossi, simbolo fin dal 1991 della battaglia contro questo male insidioso, ma soprattutto per fare un punto della situazione e continuare ad informare. Perché, a dispetto dei toni trionfalistici con cui troppo spesso si annuncia di aver trovato un elisir miracoloso, non esiste ancora un modo per sconfiggere il virus dell’HIV e, soprattutto, l’obiettivo getting to zero non è stato raggiunto ancora, neanche per quanto riguarda i contagi.
Con dieci nuovi casi al giorno, anche il nostro Paese non è affatto immune dall’HIV; la modalità di trasmissione del virus prevalente è il rapporto sessuale, mentre negli ultimi anni sono calati drasticamente i casi dovuti a somministrazione di sostanze per via endovenosa che negli anni ’80 erano, in Italia, la maggior parte. Secondo i dati dell’Istituto Superiore di Sanità, in Italia ci sono circa 120.000/180.000 persone sieropositive, un terzo delle quali non sa di aver contratto il virus. Per quanto riguarda le stime globali, si calcola che al mondo circa 34 milioni di individui convivano con l’HIV e 7.000 siano le nuove infezioni ogni giorno, mille delle quali riguardano bambini ai quali, nella quasi totalità dei casi, il virus viene trasmesso in modo verticale, ossia dalla madre al figlio. Negli oltre trent’anni trascorsi dalla sua scoperta, sono stati circa 60 milioni i pazienti che hanno contratto l’HIV e 25 milioni le persone morte a causa dell’AIDS.
Nonostante queste cifre significative, nel 2012 sono state circa 3.800 le nuove infezioni in Italia: questo significa che scarsa informazione ed evidente sottovalutazione del rischio sono ancora fenomeni estremamente diffusi. Del resto va ugualmente fatto notare come HIV ed AIDS siano andate incontro ad una sorta di “decremento della popolarità” negli ultimi anni, il quale ha reso le campagne di prevenzione spesso scarse e sporadiche: con le conseguenze che possono derivare soprattutto per le generazioni più giovani, venute al mondo in un Paese in cui le malattie sessualmente trasmissibili sono ancora troppo spesso argomento tabù.
C’è inoltre l’aspetto delle cosiddette «categorie a rischio» che contribuisce ad alimentare la mancata conoscenza del fenomeno: quando nei primi anni ’80 il mondo si trovò a confrontarsi con questo killer spietato e fino ad allora ignoto, nacque tale definizione in riferimento, ad esempio, a prostitute, omosessuali, tossicodipendenti. Naturalmente tale espressione è caduta in disuso da tempo: eppure non è neanche tanto infrequente assistere ancora a tali categorizzazioni che, oltre ad consolidare pregiudizi e cliché privi di alcun fondamento, non hanno alcun riscontro reale, né scientifico e né logico.
La verità è che esistono soltanto comportamenti a rischio, adottabili da chiunque ma riscontrabili con più alte probabilità in quella parte di popolazione definita oggi come «vulnerabile»: soggetti che per difficoltà economiche o sociali hanno meno accesso agli strumenti di prevenzione (siringhe sterili o preservativi), o persone che, sentendosi stigmatizzate o criminalizzate per i propri comportamenti, rinunciano ad adottare le misure precauzionali. A molti potrà sembrare l’inutile “ripassata” di una lezione già ascoltata migliaia di volte: ma se davvero le cose stessero così, difficilmente assisteremmo a quei 4.000 nuovi casi che si registrano ogni anno in Italia.
Il pregiudizio gioca un ruolo importante anche nello stesso ritardo della diagnosi che, di fatto, è quello che maggiormente preoccupa i medici: gran parte dei nuovi casi italiani, ad esempio, riguarda maschi eterosessuali che ignoravano le potenziali conseguenze dei propri comportamenti (troppo spesso adottati per ignoranza o superficialità) e, dunque, non si sono sottoposti al test se non quando i primi sintomi hanno iniziato a fare la propria comparsa. È noto come una diagnosi tempestiva, alla quale faccia seguito la terapia antivirale (a tutt’oggi il passo più significativo nella lotta contro l’HIV), può consentire alla persona infettata di bloccare la progressione che porta all’AIDS consentendole così di condurre una vita in tutto e per tutto simile, per qualità ed aspettative, a coloro i quali non hanno contratto il virus.
Ad oggi non è stato ancora scoperto un modo per eliminare il virus dall’organismo e, nonostante gli annunci troppo spesso entusiasti, alcun vaccino è stato messo a punto fino ad ora né preventivo (cioè in grado di impedire del tutto il contagio) né terapeutico (per le persone sieropositive); sono circa una quarantina attualmente i vaccini a cui si sta lavorando e quattro i trial clinici portati avanti negli ultimi anni ma il solo modo per raggiungere l'”obiettivo zero”, al momento, è la prevenzione. È sempre bene ricordare che, alla presenza di un argomento tanto delicato e di un virus che fino a trent’anni fa era sconosciuto, la scienza non va avanti a colpi di slogan e che la cautela e il rispetto di lunghissime profilassi per lo sviluppo di farmaci e terapie costituiscono la prima, essenziale garanzia per i pazienti.
Uno studio fondamentale, condotto dal National Institute of Allergy and Infectious Disease americano e i cui risultati sono stati resi noti nel 2011, è stato quello che ha dimostrato come la terapia sia in grado di abbattere la carica virale quasi del tutto (96%). E poi c’è stato “il caso dell’uomo che sconfisse l’HIV” destando sorpresa nei suoi stessi medici: un trapianto di midollo osseo, effettuato allo scopo di sconfiggere una leucemia che stava avanzando nell’organismo di Timothy Ray Brown, ha “sostituito” il sistema immunitario del “paziente di Berlino” rendendo l’organismo capace di respingere il virus invasore, attraverso una mutazione genetica (riscontrabile solo in circa l’1% dei caucasici) che rende i linfociti T permeabili al virus. Un caso al momento unico, o quasi: recentemente, infatti, la precoce somministrazione di farmaci antiretrovirali in una bambina americana ha reso il virus non più rintracciale. Per molti studiosi, queste due “guarigioni” (in realtà la cautela resta obbligatoria anche qui), e lo studio delle circostanze che le hanno determinate, potrebbero costituire un possibile punto di partenza per sviluppi futuri verso un mondo in cui non ci sarà più l’AIDS.
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