Le province restano, i costi (in parte) pure: la riforma a metà del Governo Renzi
Quanto si risparmierebbe sul serio con la riforma Delrio? Cosa comporta l'aumento dei consiglieri comunali e degli assessori? Insomma, di che abolizione stiamo parlando?
La Camera ha approvato, senza ulteriori modifiche, il disegno di legge “Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni”, fortemente voluto dall’ex ministro per gli Affari Regionali Graziano Delrio (ora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio). Si tratta del provvedimento comunemente denominato “abolizione delle province” (qui le modifiche apportate dal Senato), definizione peraltro inesatta dal momento che le province resteranno (sia pure con modifiche per quel che riguarda la composizione degli organi e le funzioni) e anzi saranno affiancate dalle nuove “città metropolitane” (Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria, mentre nelle Regioni a statuto speciale occorrerà normativa specifica per Palermo, Messina, Catania, Cagliari e Trieste).
Al di là delle valutazioni di merito, è pacifico che tra gli obiettivi della riforma vi siano il contenimento dei costi e la semplificazione amministrativa. E la polemica politica è proprio su queste due questioni. Probabilmente l’approccio migliore consiste nel partire dai numeri: con l’entrata in vigore della riforma saranno tagliate 2.159 poltrone provinciali per questa tornata elettorale e un totale di 2910 a pieno regime; contemporaneamente (i calcoli sono del Sole24Ore), saranno salvati subito 14.928 tra consiglieri ed assessori e 23.606 a pieno regime. Insomma, considerando che le province avranno comunque organi composti da eletti di secondo livello, l’accusa principale è relativa alla moltiplicazione delle poltrone negli enti pubblici. Se questo è vero, allo stesso tempo non possono essere taciute due obiezioni a tale lettura. La prima è relativa alla necessità di ampliare la base di rappresentanza territoriale come “contrappeso” all’eliminazione dei rappresentanti direttamente eletti dai cittadini nelle province: ecco spiegato il senso dell’aumento del numero di consiglieri ed assessori nei piccoli comuni, una misura di garanzia, che rimedia a tagli forse eccessivamente frettolosi impostati nel 2011. La seconda obiezione è sui costi, dal momento che la riforma chiarisce che le “amministrazioni saranno tenute ad assicurare l’invarianza della spesa in rapporto alla legislazione vigente” (probabile una ripartizione dei rimborsi, o in ogni caso una differente gestione delle finanze comunali, nella considerazione comunque che si parla di voci di spesa decisamente ridotte) e che non sono previsti rimborsi per quel che concerne gli incarichi di secondo livello nei nuovi organismi provinciali.
Il problema vero, da un punto di vista meramente “economico”, è semmai quello evidenziato da Tito Boeri su LaVoce: i risparmi sono modesti proprio perché le province di fatto non sono abolite e restano pressocché invariati i costi per “dipendenti, funzioni e spese di rappresentanza”, che rappresentano la stragrande maggioranza delle spese di questo livello di governo. I calcoli sono abbastanza chiari: “Quello che si risparmia con certezza è solo il finanziamento degli organi istituzionali (le indennità del presidente, assessori e consiglieri e i vari rimborsi connessi alle loro attività), che vengono aboliti, insieme alle spese delle relative consultazioni elettorali. Il finanziamento degli organi istituzionali è una partita di circa 110 milioni secondo gli ultimi dati disponibili. Non verrà azzerata dati i costi dei nuovi organi delle città metropolitane. Le consultazioni elettorali costano circa 320 milioni e si tengono ogni cinque anni, dunque il risparmio annuale è di circa 60 milioni, in totale i risparmi saranno attorno ai 150 milioni di euro“.
Sulle funzioni delle nuove province regna ancora grande confusione. Tecnicamente il problema non dovrebbe porsi per le nuove città metropolitane, che ingloberanno le funzioni delle vecchie province, mentre le altre province dovrebbero conservare solo le funzioni fondamentali, delegando le altre ai comuni. Eppure, come ricorda Salerno su Linkiesta, “su questo punto il Ddl si muove cauto e lascia aperta la via a trasferimenti di funzioni alle Regioni o, in alternativa, alla creazione di “consorzi” o “coordinamenti” tra Comuni. Per le Regioni potrebbe presentarsi il problema opposto a quello dei Comuni: livello troppo alto e dimensioni troppo grandi, con necessità di delega sussidiaria per articolare le scelte sul territorio. Le aggregazioni dei Comuni, dal canto loro, altro non sarebbero che Province rifondate, che potrebbero sì esser migliori di quelle attuali, ma che di sicuro hanno bisogno dei tempi dell’analisi economica (costi/benefici, ottimizzazione di scala, etc.) e dell’interazione politica e istituzionale“. Per questo motivo, la legge Delrio sembra “rinviare” a successivi interventi il necessario riordino definitivo delle funzioni (probabile anche che si ritorni all’idea dell’abolizione tout court dell’istituto). Insomma, una legge che contiene spunti interessanti e allo stesso tempo misure lungamente attese (sulla sostenibilità del vecchio sistema ci si è a lungo interrogati), ma che risente della necessità di impedire una nuova (imminente) tornata elettorale. E la sensazione è che davvero il Governo Renzi abbia scontato ritardi e indecisioni delle “precedenti amministrazioni”.
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