L’economia accelera ma i giovani continuano a guardare all’estero: il punto sul mercato del lavoro italiano
Il 2017 si chiude confermando i segnali positivi che nel corso dell’annata hanno testimoniato la ripresa dell’economia italiana: secondo le ultime stime dell’Istat, a fine anno il PIL si attesterà su un +1,4%, un dato leggermente inferiore rispetto alle attese, ma comunque molto incoraggiante.
I risultati più interessanti sono senza dubbio quelli che riguardano il mercato del lavoro: il numero degli occupati, nei 12 mesi compresi tra ottobre 2016 e ottobre 2017, è aumentato di 246.000 unità, portando il tasso di disoccupazione a stabilizzarsi attorno all’11,1%.
Sempre stando ai dati Istat, a diminuire non è solo il numero delle persone prive di occupazione (-1,1% tra agosto e ottobre di quest’anno), ma anche quello degli “inattivi”, ovvero degli italiani che, pur essendo disposti a lavorare, hanno rinunciato alla ricerca di un impiego (-0,4% nello stesso periodo).
Il nodo principale del mercato del lavoro italiano rimane tuttavia la situazione delle giovani generazioni.
I dati statistici mostrano un trend positivo, con il tasso di disoccupazione dei ragazzi tra i 15 ed i 24 anni che ad ottobre calava al 34,7%, una quota ancora molto elevata, ma ben lontana dall’allarmante 43% del 2014.
A dispetto delle attese, l’aumento delle chance di trovare un impiego non sembrerebbe aver modificato i piani di quei giovani che sognano una carriera all’estero: l’emorragia di forza lavoro giovane prosegue senza sosta e il numero dei diplomati e dei laureati che nel 2017 hanno scelto di trasferirsi in un altro paese europeo è cresciuto ulteriormente rispetto allo scorso anno. Le mete preferite dai ragazzi italiani si confermano Svizzera, Germania e Gran Bretagna. In particolare, con le oltre 60.000 richieste per l’assegnazione del numero assicurativo nazionale pervenute dall’Italia, Londra guadagna la vetta delle destinazioni più ambite.
Così, se Brexit, rallentamento dell’economia britannica e ripresa dei rispettivi mercati del lavoro interni sembrerebbero aver convinto i giovani spagnoli, portoghesi ed irlandesi a costruire il proprio futuro in patria, per gli italiani la prospettiva di una carriera oltreconfine continua ancora a rappresentare l’opzione più allettante.
Quali sono le cause della crescente sfiducia dei più giovani nei confronti delle possibilità offerte dal mondo del lavoro italiano?
In primis, a pesare sono le scarse prospettive di crescita professionale e salariale, ma anche gli innumerevoli ostacoli burocratici, amministrativi e fiscali che spesso soffocano i nuovi progetti imprenditoriali, condannandoli al fallimento.
Contribuiscono ad alimentare il clima di sfiducia anche le annose carenze infrastrutturali dell’Italia – che oggi non riguardano più solo sistemi e vie di trasporto ma anche l’accesso a strumenti di lavoro come le connessioni a banda larga –, la lentezza del sistema giuridico e l’assenza di serie politiche e investimenti importanti mirati al sostegno dei più giovani.
Complici delle difficoltà che gli under 35 incontrano nel trovare una collocazione nel mondo del lavoro adeguata alle proprie competenze ed ambizioni sono anche le mancanze dell’istruzione italiana. Scuole secondarie e, soprattutto, università faticano ad adeguare la propria offerta formativa ad un mercato che richiede sì una buona preparazione teorica, ma anche skill personali e competenze tecniche sempre più approfondite.
In molti ambiti, a sopperire all’assenza di continuità tra formazione scolastica ed universitaria e contesto lavorativo delle grandi aziende italiane ed internazionali sono realtà quali le Business School, che attraverso un costante lavoro di aggiornamento dei programmi forniscono una preparazione altamente specialistica, orientata alla definizione di figure professionali capaci di operare sin da subito nel proprio settore di riferimento.
Ad esempio, il modello seguito nei master in amministrazione, finanza e controllo – campi in cui le Business School italiane vantano eccellenze riconosciute a livello internazionale – è quello di corsi improntati alla pratica, con analisi approfondite di casi di studio e la collaborazione di specialisti del settore presenti in aula, ma anche con l’acquisizione di capacità operative, attraverso la cura di “Project Work” inerenti a situazioni reali, quali avvio di una start up innovativa, risanamento aziendale o accesso agli strumenti di finanza straordinaria.
Le metodiche di insegnamento adottate nei master relativi al settore Business, che oggi integrano anche gli strumenti sempre più pratici ed accessibili dell’e-learning per il recupero delle lezioni e la fruizione dei contenuti anche a distanza, sono applicabili in qualunque ambito e rappresentano indubbiamente la chiave alla quale il mondo dell’istruzione italiana dovrà ispirarsi per tornare a formare figure professionali davvero competitive.
Con la riforma soprannominata “Buona scuola”, già due anni fa il Governo muoveva i primi timidi passi verso un rinnovamento del sistema scolastico tricolore, concedendo ai singoli istituti maggiore autonomia nella gestione delle risorse, nella selezione del personale docente e nella definizione dei piani di studio. Importanti, poi, la scelta di ampliare l’opzione dell’alternanza scuola-lavoro, con stage e tirocini in azienda, riservata non solo agli istituti tecnici e professionali ma a tutte le scuole superiori di secondo grado, e le numerose iniziative del Piano Nazionale Scuola Digitale.
Lo scorsa agosto, l’Ocse rivelava che l’Italia si classificava ancora una volta terzultima in Europa per gli investimenti nell’istruzione, destinando alla spesa scolastica ed universitaria appena il 4% del PIL (contro il 7% di paesi come la Danimarca).
Destinare fondi adeguati al mondo dell’istruzione e definire nuove politiche a sostegno dell’occupazione giovanile sono obiettivi imprescindibili per l’immediato futuro.
Per comprendere le reali dimensioni del problema basta considerare che la “fuga dei cervelli italiani” si traduce in una perdita di circa 14 miliardi di euro all’anno, cifra che equivale ad un punto percentuale del PIL nazionale.