Marò sequestrati in India: dibattito ad Alghero
Il giorno 5 ottobre, presso il parco Tarragona di Alghero si è tenuto un incontro-dibattito sulla questione dei due sottufficiali della Marina Militare sequestrati in India mentre erano impegnati nel Nucleo Militare di Protezione a bordo della Motonave Enrica Lexie , di bandiera italiana. L’incontro, organizzato dalla Associazione Pensionati Interforze di Alghero e dall’Ente Giuliano di Sardegna, è stato diretto dal Comandante Furio Fiorucci, paracadutista( r) e dall’amm.(r) Vittorio Guillot. Dopo aver sinteticamente esposto i fatti salienti, i relatori hanno espresso l’opinione che ,anche se in armonia con l’ordinamento giuridico italiano, la legge che stabiliva l’imbarco dei militari per scortare le navi mercantili, per diversi aspetti fosse lacunosa. Essa, infatti, non specificando a chi spetti dare le disposizioni in caso di attacco dei predoni, lascia inalterate le competenze attribuite dal Codice della Navigazione ad un civile, il comandante della nave, anche se queste coinvolgano la attività dei militari che, invece, dovrebbero dipendere dallo Stato e dai loro superiori gerarchici. A parte questa grave lacuna relativa alla catena di comando, è stato comunque rilevato che i militari possono essere legittimamente impiegati in quel servizio al fine di tutelare la stessa vita dei marittimi imbarcati e l’interesse pubblico legato alla protezione di importazioni e esportazioni di merci indispensabili per la nostra economia nazionale tanto più che le spese connesse a quel servizio erano a carico degli armatori.
Soprattutto è stato messo in risalto che l’ India, chiedendo alla nave italiana di entrare nel porto di Kochi per identificare alcuni pirati che sarebbero stati protagonisti di un attacco, procedette coll’inganno all’arresto dei due sottufficiali. Il comando della nave accettò la richiesta dopo aver ricevuto l’assenso dell’armatore ,d’accordo col Comando in Capo della Squadra Navale (Cincnav)e del Centro Operativo Interforze (C.O.I.), che, dati i buoni rapporti tenuti fino allora tra l’Italia e l’India, non sospettarono di cadere in un tranello. In ogni modo, con quel suo comportamento , lo stato asiatico violò sia la Convenzione Internazionale sul Diritto del Mare , stipulata a Montego Bay nel 1985, sia la Convenzione Internazionale stipulata a Vienna nel 1961 e relativa, tra l’altro, alla giurisdizione sui militari operanti in territori stranieri. Infatti la vicenda che vede coinvolti i due militari italiani si sarebbe verificata a 20,5 miglia nautiche dalla costa indiana del Kerala e, cioè, nella così detta Zona Contigua, in cui l’India può esercitare i poteri di polizia solo per reprimere i reati di contrabbando o per le violazioni delle sue Leggi in materia sanitaria. Si è precisato che lo stesso governo indiano, dopo le iniziali ambiguità, ha confermato questa localizzazione della vicenda tanto che ha motivato la sottrazione del giudizio allo stato del Kerala e la avocazione a un tribunale speciale con sede a New Delhi proprio perché il fatto si sarebbe verificato fuori dalle sue acque territoriali. La convenzione di Vienna, poi, è stata violata perché riconosce l’immunità funzionale per i militari che operano in territori stranieri.
L’India, dal canto suo, ha più volte preteso la applicazione di tale immunità in favore dei suoi militari, in particolare per quelli impegnati in Congo in operazioni compiute sotto l’egida dell’O.N.U. e accusati di violenze, stupri, contrabbando, corruzione etc. La vicenda non rientra neppure tra i casi di pirateria o di tratta degli schiavi , che legittimano le navi militari a intervenire sulle navi mercantili battenti diversa bandiera dalla loro. L’intervento dell’India non può neppure essere giustificato ai sensi della Convenzione Internazionale di Roma del 1987, che consente di intervenire su navi mercantili straniere in navigazione in acque internazionali nel caso che su di esse siano compiute attività terroristiche in danno di beni o cittadini dello Stato aggredito. Nella fattispecie mancano, infatti ,sia un elemento oggettivo, ossia la volontà dei terroristi di ricorrere alla violenza per asservire alle loro pretese la volontà di uno Stato, sia un elemento soggettivo e cioè la qualifica di “civile” del terrorista. Per la Convenzione, infatti, solo un “civile” può essere definito terrorista mentre se analoghi atti di violenza fossero compiuti da militari , ci si troverebbe di fronte ad azioni belliche vere e proprie ed i militari eventualmente catturati dovrebbero essere trattati come prigionieri di guerra. Tutto ciò ha portato i relatori a concludere che l’India non fosse affatto legittimata ad arrestare i nostri sottufficiali mentre solo l’Italia avrebbe potuto giudicarli.
Consegnando, per due volte, i due militari all’India, il governo italiano , di fatto ne ha tacitamente e indebitamente, avvallato la competenza a giudicarli . E’ vero che il rientro temporaneo dei due in Italia era stato “concesso” previo impegno ,e versamento di relativa cauzione, che sarebbero stati riconsegnati all’India. E’ anche vero, però, che la convenzione dell’Aia del 1905 consente il diritto di ritorsione agli Stati vittime di violazioni delle Norme Internazionali. La ritorsione consiste nel non applicare di norme di analogo valore contro chi abbia commesso quelle violazioni. A ciò si aggiunga che l’India ha accusato i nostri uomini di terrorismo, tanto è vero che la vicenda è seguita agenzia antiterrorismo (N.I.A). E’ anche da sottolineare che per i reati di terrorismo la repubblica indiana prevede la pena di morte e che l’Italia , in casi simili, alla luce delle sue Leggi, ha rifiutato l’invio in altri Stati di persone punibili con la pena capitale. Perciò i relatori hanno espresso il dubbio che le ragioni che hanno indotto il nostro governo a far rientrare in India i due sequestrati siano di natura diversa da quella che è stata ufficialmente dichiarata. L’India, inoltre, impedendo la libertà di movimento al nostro ambasciatore a New Delhi , ha violato anche la Convenzione di Ginevra.
Considerata la pervicace arroganza dell’India , ci si è chiesti , a questo punto, perché il governo italiano non abbia finora chiesto all’O.N.U. la apertura di un contenzioso internazionale che decida a quale dei due Stati competa giudicare i due marinai. Teniamo presente, tra l’altro, che l’India ha recentemente minacciato di aprire lei un contenzioso contro l’Italia perché quest’ultima , che si era impegnata a far sentire come testimoni dai magistrati indiani gli altri quattro membri del Nucleo Militare di Protezione, rifiuta di inviare a new Delhi i marinai in questione. Questo rifiuto è motivato dal fatto che l’Italia non ha ricevuto alcuna garanzia che i testimoni non verranno arrestati a loro volta. Il governo italiano chiede, piuttosto, che i quattro siano interrogati per teleconferenza o per rogatoria internazionale o, in ultima analisi, da magistrati indiani appositamente inviati nel nostro Paese. Si E’ pure detto che sussistono notevoli perplessità anche in merito al modo in cui l’India ha proceduto nell’inchiesta a carico dei due “marò”. Infatti il peschereccio su cui sono morti i due pescatori e che dovrebbe essere considerato “corpo di reato”, è stato inopinatamente distrutto ben prima dell’apertura del processo, per autorizzazione della magistratura indiana. Inoltre alle perizie balistiche sul suddetto peschereccio non sono stati ammessi periti nominati dal governo italiano. A ciò si aggiunga che il medico legale che ha proceduto alla perizia necroscopica ha escluso che le ferite riscontrate siano compatibili con i proiettili del calibro delle armi in
dotazione ai nostri militari.
Si aggiunga ancora che il comandante del peschereccio non ha riconosciuto la Enrica Lexie come la nave da cui si sparò contro la sua unità. Lo stesso comandante indiano, in un primo tempo, dichiarò che l’incidente si sarebbe verificato alle ore 2100 del 15 febbraio 2012 mentre è accertato che la sparatoria che vide per protagonisti i due “marò” si verificò alle ore 1700. E’ ben vero che il comandante dell’unità indiana , dopo alcuni giorni , ritrattò quella dichiarazione così pure, d’altro canto , è vero che i testimoni che si trovavano sulla nave italiana hanno affermato che il battello dinanzi alla cui prua furono sparati i colpi di avvertimento era di colore blu mentre quello colpito era rosso e bianco. E’ altrettanto vero, inoltre , che nella zona dell’incidente erano presenti altre quattro navi: la ‘Giovanni’, la ‘Ocean Breeze’, la ‘Kanon Victoria’ e la ‘Olimpic Flair’, di bandiera greca. L’armatore di quest’ultima nave non escluse la presenza dell’unità in zona. Tale presenza fu invece negata , dal governo greco che, però, alla luce dei rilevamenti effettuati, fu smentito dall’International Maritime Bureau di Londra e, pare, dai tabulati telefonici di alcuni membri dell’equipaggio. Ci si è chiesti perché i greci abbiano tenuto un comportamento così ambiguo e se non siano direttamente coinvolti nella faccenda. Date le circostanze e considerato che in Italia, secondo le nostre Leggi, qualsiasi cittadino deve essere considerato innocente fino a sentenza di condanna passata in giudicato, ci si è chiesti , infine, se le affermazioni con cui lo staff del nostro ministro degli esteri non esclude la colpevolezza dei due sottufficiali , non debbano essere considerate inopportune, imprudenti e dannose.