Politiche di Difesa ed Estera in Italia, due destini incrociati
Nei mesi precedenti e nel corso della campagna elettorale per le elezioni Politiche 2013 tra i diversi temi economici che hanno tenuto banco le spese militari sono state investite da una assai accesa polemica sviluppatasi intorno al programma JSF (Joint Strike Fighter, altrimenti noto come F-35). Purtroppo, come sovente accade, tanto il panorama politico quanto quello dei mass media hanno finito per assumere da ambo i lati posizioni faziose al limite del tifo calcistico, mancando così l’occasione di aprire sull’argomento un dibattito serio e di tracciare al tempo stesso un quadro di riferimento chiaro. Piuttosto che arroccarsi su una posizione e cercare strenuamente di difenderla, sarebbe forse più utile contestualizzare oggettivamente in termini di cifre, programmi ed obiettivi l’intero piano di sviluppo ed investimenti del comparto Difesa.
Inquadrando l’argomento nell’ambito del bilancio dello Stato, la Nota aggiuntiva allo stato di previsione della Difesa indica per il 2013 una spesa per la funzione Difesa di 14,6 miliardi di Euro, in crescita del 7,58% rispetto all’anno precedente. In rapporto al PIL stimato per l’anno in corso, equivale a circa lo 0,93% dello stesso. Alla funzione Difesa sopra riportata fanno riferimento la totalità delle risorse necessarie per l’assolvimento dei compiti dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica, a cui si sommano quelli derivanti da attività interforze e legati al funzionamento della struttura tecnico industriale ed amministrativa del Ministero della Difesa. La ripartizione interna dei fondi è tuttavia molto sbilanciata, così come indicato nel Documento di Economia e Finanza 2012 secondo cui “l’Italia, pur avendo un bilancio per la Difesa tra i più bassi d’Europa (0,84 per cento rispetto al PIL, contro una medie UE del 1,6%), ha però una spesa per il personale, rispetto al bilancio assegnato, molto superiore percentualmente alla media UE, segnatamente il 70% rispetto al 51% della spesa UE. Per le altre spese operative e per gli investimenti residuano solo, rispettivamente, il 12 e il 18 per cento”. Da qui la necessità della drastica riforma volta a ristruttura profondamente l’intero strumento militare per riportarlo ad una più efficiente allocazione delle risorse disponibili [Rileggi l’intervista in merito a Fabrizio Coticchia, Research Fellow presso l’International Research Laboratory on Conflict, Development and Global Politics – CDG Laboratory, DIRPOLIS della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa].
A dispetto di queste cifre, reali e attuali, nel calderone dell’opinione pubblica sono state buttate proiezioni e stime tanto imprecise quanto condite da informazioni spesso largamente incomplete. Innanzitutto, i principali programmi di interesse per la Difesa sono integralmente o parzialmente finanziati con le risorse stanziate dal Ministero dello Sviluppo Economico. Tra questi, la Nota aggiuntiva del 2012 indica quelli più rilevanti in corso di sviluppo:
• Forza NEC: programma di digitalizzazione della componente terrestre dell’Esercito Italiano, volto a soddisfare le esigenze di integrazione in ambito NATO secondo la dottrina della Network Centric Warfare;
• FREMM – Fregate Europee Multi Missione: programma italo-francese relativo all’acquisizione di nuove Fregate in sostituzione delle Fregate classe Lupo (già dismesse) e classe Maestrale (varate nei primi anni ’80);
• Eurofighter: programma multinazionale in cooperazione con Spagna, Germania e Regno Unito per lo sviluppo e l’acquisizione di velivoli per la difesa aerea;
• SICRAL 2: programma italo-francese volto allo sviluppo di un sistema di comunicazioni satellitari di seconda generazione.
Forza NEC è in assoluto il più oneroso ed ambizioso: l’intero costo è stimato in 22 miliardi di euro, coperti in un lasso di tempo che va dal 2007 al 2031.
Ed i tanto vituperati F-35? La disinformazione che ha ammantato il programma ha mancato di chiarire alcuni punti evidenziandone altri, concorrendo così a creare luoghi comuni che non rispondono alla realtà. In particolare, la totalità degli attacchi sono stati demagogicamente basati sull’assunto secondo il quale da qualche parte, nelle casse dello Stato, ci siano dai 10 ai 15 miliardi (a seconda delle fonti) accantonati in favore del JSF. Approfondendo si scopre che in realtà non esiste alcun fondo del genere e che tali stime sono proiezioni di spese future, ripartite su oltre un decennio a partire dal 2014.
Rimanendo sul piano economico, senza peraltro aprire il tema dell’industria bellica in Italia e degli interessi che vi gravitano attorno in quanto significherebbe scoperchiare un vero e proprio vaso di Pandora, l’orizzonte temporale dei programmi strategici come quelli citati non può che essere di lungo termine. Per produrre risparmi significativi, tuttavia, l’eventuale cancellazione di progetti ad alta complessità ed elevatissima innovazione tecnologica è di fatto possibile solo nelle prime battute; viceversa, nelle fasi successive ciò comporterebbe l’onere di penali sempre più costose, la perdita degli investimenti fatti e soprattutto la necessità di realizzarne di nuovi a parità di capacità richiesta.
Proprio da questo ultimo punto prende le mosse quella che dovrebbe essere la vera riflessione legata agli investimenti nel comparto Difesa, da affrontare oggettivamente senza lasciarsi guidare da prese di posizione aprioristiche ed ideologiche: quali sono le capacità richieste?
Negli ultimi trent’anni l’Italia è stata progressivamente sempre più coinvolta in missioni internazionali che hanno portato migliaia di uomini e donne in giro per il mondo, perlopiù sotto bandiere ONU, NATO e, più recentemente, UE. A dettare una simile linea hanno concorso e concorrono ancora oggi diversi fattori.
A livello geopolitico, la partecipazione in tali missioni è stata spesso finalizzata ad affermare, costruire e mantenere uno status ritenuto indispensabile per la salvaguardia degli interessi nazionali. In particolare il ruolo dell’Italia quale media potenza ha portato i diversi esecutivi che si sono succeduti nel tempo a cercare una costante presenza nelle alleanze multilaterali, al fine di assicurare al Paese un certo credito e peso politico spendibile in seguito anche in altri consessi. Nel corso degli anni, proprio il riconoscimento in ambito internazionale dei risultati conseguiti dalle Forze Armate impegnate nel mondo ha sensibilmente contribuito ad impedire la marginalizzazione dell’Italia e che la sua immagine politica si deteriorasse ulteriormente.
A livello economico, in quanto Paese importatore di risorse energetiche e materie prime ed esportatore di beni, l’Italia ha di fatto interessi molto più globali di quanto generalmente percepito dall’opinione pubblica; tra questi, ad esempio rientrano, la sicurezza delle rotte marittime commerciali (c.d. SLOC, sea line of communication) e la stabilità di aree connesse all’approvvigionamento o allo sbocco dei mercati nazionali, non necessariamente contigue o prossime in termini geografici.
Alla luce di questa breve analisi appare chiaro che un confronto in merito all’opportunità o meno di certe scelte di investimento, ha una sua ragion d’essere solo se condotto di concerto con una chiara definizione degli obiettivi in termini di politica Estera e del ruolo nello scacchiere internazionale che si sceglie per l’Italia. Svincolare questi aspetti gli uni dagli altri non solo non fornisce un servizio di informazione completo e corretto, ma addirittura concorre unicamente a creare ambiguità ed alimentare incertezza in un settore chiave per gli interessi del Paese.
Tanto gli F-35 quanto gli altri programmi militari sono al tempo stesso indispensabili ed uno spreco di risorse pubbliche: quale delle due, dipende dalle scelte di indirizzo che chi ha la responsabilità di decidere è chiamato a compiere in maniera univoca. Se all’Italia le sue Forze Armate servono esclusivamente per la difesa fisica dei confini nazionali allora probabilmente gli F-35 sono inutili, così come sono superflue tutte le capacità di proiezione di potenza che derivano da mezzi quali, ad esempio, la portaerei “Cavour” della Marina Militare o le aerocisterne per il rifornimento in volo in dotazione all’Aeronautica Militare.
Ma se, al contrario, lo status del nostro Paese è quello delineato in precedenza di media potenza con interessi globalmente diversificati, allora l’acquisizione ed il mantenimento in efficienza di uno strumento militare snello, preparato e moderno, capace di partecipare attivamente e con successo alle iniziative internazionali che vedranno coinvolta l’Italia, sono requisiti necessari ed indifferibili. Delle due l’una, con la consapevolezza che certe decisioni strategiche e di lungo periodo una volta prese possono essere cambiate unicamente a fronte di costi – non solo in senso economico – altissimi e difficilmente quantificabili.
Tratto da http://www.bloglobal.net
Matteo Guillot è Ufficiale della Marina Militare e Dottore in Scienze Marittime e Navali (Università di Pisa)