Riforma del lavoro
Si sente ripetere che, anche considerata la tragica situazione del nostro debito pubblico, i tagli degli sprechi debbano essere fatti senza indugio e che debbano essere costituite le condizioni perché non si ripetano più per l’eternità. Concordo, in linea di principio, con questo orientamento anche se penso che se quel debito, secondo l’insegnamento di Keynes, fosse destinato a investimenti produttivi, favorirebbe i consumi, l’occupazione e, in definitiva, il gettito fiscale. Secondo me (e, fortunatamente non solo secondo me!), nell’ ottica di una economia sociale e di mercato, indicata anche dall’art.41 della Costituzione, occorrerebbe, piuttosto, porre il lavoro e l’impresa al centro della politica economica e puntare a un aumento di investimenti e consumi attraverso una migliore distribuzione dei redditi e la riduzione delle loro differenze, peraltro antieconomiche.
Personalmente penso, inoltre i “mercati finanziari”, non debbano fare a loro piacimento il bello e il cattivo tempo nella vita di popoli e nazioni, ma che, nel rispetto dell’art.47 della Costituzione, debbano essere “disciplinati, coordinati e controllati” dai pubblici poteri . Sono altrettanto convinto che occorra eliminare i costi inutili e l’inefficienza delle pubbliche amministrazioni e che, perciò, occorra riorganizzarle capillarmente e rendere i dipendenti responsabili delle loro azioni o premiarne i meriti. Ovviamente chi perdesse “il posto di lavoro inutile” dovrebbe essere aiutato nel periodo di difficoltà. Ciò non solo per una questione di umana solidarietà, ma anche per evitare shocks economici e turbative sociali. Piuttosto dovrebbero essere create le condizioni perché chiunque possa trovare un lavoro produttivo e non credo che bastino le liberalizzazioni e la riforma del “mercato del lavoro” per il rilancio dell’economia.
In tal senso la politica deve offrire a chiunque la possibilità di lavorare, senza alcuna discriminazione. Questo, d’altro canto, è stato l’orientamento di molti di “costituenti”, Fanfani in testa, nel redigere il famoso primo articolo della Costituzione. Gli imprenditori, da parte loro, devono essere invogliati a investire i loro capitali in maniera da assicurare la maggiore occupazione possibile. Personalmente, per contribuire alle esigenze dei pubblici bilanci e alle relative coperture finanziarie, non sono affatto contrario ad una forte tassazione dei grandi patrimoni e dei beni di lusso mentre considero una ingiustizia la tassazione della prima, modesta, casa delle famiglie a basso reddito. Penso anche che i grandi redditi e i grandi stipendi possano essere giustificati solo se chi li percepisce genera sviluppo e posti di lavoro proficuo. Ciò che non torna è che troppi alti redditi e stipendi siano percepiti soprattutto in “virtù” di abusi di posizioni di potere. Abusi favoriti dagli agganci politici e, quindi, dal nostro sistema insufficientemente democratico. Occorre sempre, inoltre, che chi gode di lauti redditi sia spinto ad investirli nuovamente in attività produttive. Non dimentichiamo, infatti, che la proprietà, anche secondo la nostra Costituzione, ha una funzione sociale. Questo è uno degli aspetti della nostra Magna Charta che, assieme ai principi di libertà e democrazia, non solo non modificherei, ma valorizzerei e renderei più concretamente impegnativi. In altri termini, i maggiori meriti, sacrifici e rischi dovrebbero essere ripagati con una maggiore agiatezza che, comunque, non deve soffocare le generali possibilità di sviluppo e di occupazione. Come, peraltro, previsto anche dall’art . 46 della costituzione, credo, anche, nella validità della partecipazione dei lavoratori alla gestione ed agli utili delle aziende di grandezza superiore a quelle artigianali. Così si valorizzerebbe l’attività del lavoratore e si affermerebbe la democrazia economica.
Non vi sembra che sarebbe fondatamente presumibile che le imprese, articolate in questo modo, assicurerebbero efficienza e economicità e che, quindi, attirerebbero investimenti di capitale? In Germania tale sistema funziona, non è utopia. Questa partecipazione tiene conto del diverso contributo dato alla produzione stessa dai diversi soggetti e il manager è considerato il produttore di maggior peso mentre gli investimenti del capitale sono remunerati secondo le valutazioni di mercato. Peraltro gli stessi operai sono spesso anche azionisti. Personalmente riconosco i meriti degli imprenditori, anche se penso che le loro aziende non si sarebbero potute sviluppare senza l’ attività di tutti i lavoratori. In un sistema di partecipazione agli utili e alla gestione delle imprese l’ammontare delle retribuzioni sarebbe sempre affidato alla contrattazione tra le parti e, quindi, il “mercato” farebbe capolino anche in questo caso. Nessuno dei contraenti, però, avrebbe una posizione di predominio anche perché, in uno Stato “sociale”, meglio se ispirato ad una democrazia corporativa, il capitale sarebbe tutelato e potrebbe operare solo nell’ambito delle finalità democraticamente stabilite dall’Ente Pubblico. Perciò il mondo della produzione dovrebbe, giocoforza, giungere ad un più equilibrato accordo tra le altre parti, perché tutti i produttori sarebbero legati ad uno stesso carro. I conflitti, che potrebbero sempre sorgere, sarebbero risolvibili, a secondo dei casi, con scioperi motivati o con interventi della magistratura del lavoro. A chi, per le idee che ho espresso in questo articolo, mi “accusa” di essere “di sinistra”, faccio semplicemente presente che le etichette non mi spaventano affatto e che, comunque, ritengo assolutamente deleteria la lotta di classe continua, elevata a sistema, secondo l’infausta e fallita rivoluzione comunista.