Il risveglio della speranza
Alberga in ciascuno di noi, magari sopita. E anche se alcuni la ritengono un inutile stato d'attesa, che serve solo a perder tempo, altri cominciano a coltivarla.
Nicola, è sempre stato uno semplice e di sani principi. Fin da ragazzo. Veniva da una famiglia umile del profondo sud. Profondo quanto lo può essere la Calabria, dove i Suoi facevano i contadini nella piana di Gioia Tauro. Profondo, come il suo sguardo, sostenuto da occhi neri piccoli, ma espressivi e luminosi. Curiosi, anche; almeno quanto bastava, per decidere di andare via da quella terra. Alla scoperta di un mondo diverso. Forse meno arcaico; forse meno difficile. Si era diplomato da Geometra, ma non lo sapeva fare, né gli interessava provarci. Quando arrivò in Germania, a Colonia, iniziò a lavorare lavando i vetri di un centro commerciale. Poi, in una lavanderia industriale. Poi, ancora, come guardiano notturno in una fabbrica di cuscinetti. Dopo solo qualche settimana, però, cominciò a capire che organizzandosi con gli orari, avrebbe potuto farli tutti e tre contemporaneamente.
In pochi anni, bevuti tutti d’un fiato, aveva già a disposizione la somma che gli servì per aprire un piccolo punto di ristoro; nel centro della città. Un fast food a base di tranci di pizza e lasagne in teglia, già pronte. Tutto made in Italy. Vino e birra compresi. Aveva fiuto, Nicola e anche se nessuno glielo aveva insegnato, riusciva a cogliere immediatamente quelli che erano i bisogni della gente; per trasformarli in prodotti e servizi da farsi pagare profumatamente. Ben presto la sua intraprendenza lo portò ad aprire altri punti di ristoro, nella stessa città di Colonia, ma poi anche fuori. Francoforte, Dusseldorf, Berlino, Stoccarda, Monaco, ecc.; in una espansione che, si arrestò soltanto davanti all’offerta di acquisto di una multinazionale. Volevano tutta la catena e la ebbero.
Dalla vendita dell’azienda, Nicola, ricavò una montagna di denaro, che investì in aziende agricole e strutture turistiche della sua Calabria; tra la sua gente. Dove, una volta tornato, finì di sistemare la sua famiglia e molti dei suoi parenti più prossimi. Come in una favola a lieto fine. Eppure, l’inizio della sua storia, in quel piccolo paese della Piana di Gioia Tauro, avrebbe anche potuto lasciar presagire, un futuro diverso, da ciò che poi è stato realmente. Quando mi raccontò la sua storia, in occasione del nostro primo incontro, lui parlò di sé come di un uomo molto fortunato. E probabilmente aveva anche ragione. Tuttavia conversando con lui e ascoltando attentamente le sue parole, riuscii a comprendere facilmente quale fu l’ingrediente che, prima di altri, mise la sua vita sul binario buono.
Un ingrediente naturale, che tutti abbiamo, ma che spesso dimentichiamo di possedere: la speranza. Fu la speranza in una vita migliore, la molla che lo portò a prendere il treno fino a Colonia. E fu la speranza di poter sostenere la sua famiglia, che gli diede la forza di fare tre lavori contemporaneamente. Fu sempre la speranza, quella di esser d’aiuto alla sua gente, che lo spinse ad aprire un secondo, un terzo, e poi tutti gli altri fast food. Per ogni nuovo punto vendita, infatti, c’erano opportunità di lavoro per i suoi compaesani. Bastava una telefonata, ed era festa. Certo, Nicola, dimostrò di avere anche ben altre qualità; tuttavia senza di essa, senza quella scintilla di luce, nulla sarebbe stato.
Ma oggi, invece, c’è ancora chi confonde la speranza con un inutile stato d’attesa. Un qualcosa di negativo che fa perdere tempo, creando aspettative illegittime, che potrebbero essere disattese. In realtà, essa, è un potente stato emozionale. Uno dei più forti tra quelli che il cervello ci mette a disposizione gratuitamente. L’essere inclini alla speranza ci rende più sicuri e ottimisti. Capaci di sopravvivere in condizioni di estrema difficoltà. Qualunque ne sia la causa. Ci fornisce l’ambizione necessaria, per fissare obiettivi utili a uscire da una situazione che non ci piace. Ci da la forza di sopportare sacrifici indicibili pur di raggiungerli. Ci fa vedere la luce, quando ancora è buio pesto.
Il 4 dicembre scorso, con l’ultimo voto referendario, questo sentimento, da tempo sopito, si è risvegliato. Il settantadue per cento degli Algheresi e dei Sardi in generale, si è unito attorno ad un monosillabo. E lo ha fatto in una proporzione inaspettata, perché chi di dovere, potesse capire l’evidente disaccordo di un popolo che è unico e diverso da tutti gli altri. Con esigenze proprie, da considerare e rispettare. Un NO, quindi, non solo alla proposta referendaria, ma anche alle politiche insipide e servili degli ultimi decenni. Da tanto, infatti, aspettiamo che qualcuno capisca i nostri bisogni. Di isolani, da una parte, di Cittadini Algheresi, dall’altra. Il risveglio della speranza, ci ha permesso di immaginare un domani migliore, dandoci la forza di urlare “il nostro” NO. Ora, non resta che dargli seguito. Chi ha orecchie per intendere, intenda.