Verità assolute, relativismo e libertà
Da molto tempo si è aperto un dibattito sulla tendenza di buona parte della cultura moderna al relativismo, alla negazione dei valori assoluti, nonché sul valore della libertà dell’uomo e sull’autoritarismo. Cerco di dire la mia anche se sono un “dilettante” della materia e non certo un “intellettuale”. Certo è che mi chiedo se noi uomini abbiamo, almeno potenzialmente, la possibilità di conoscere le cose nella loro realtà effettiva e, cioè, secondo la loro verità più autentica, ossia oggettiva e, quindi, unica o se, invece, siamo destinati al relativismo più radicale, fondato sulla presunta impossibilità di raggiungere quella verità.
A questo punto mi chiedo anche che senso avrebbe continuare a pensare, a ragionare, a discutere e a confrontarsi e, magari, a litigare con gli altri, se si partisse dal presupposto che è radicalmente impossibile arrivare ad una stessa, unica verità e conclusione. Sarebbe meglio chiudere qui un discorso tra sordi. Sarebbe ancora peggio, se, addirittura, pensassimo che quella verità non esista proprio! Forse è pensabile e possibile che una cosa, qualsiasi cosa e qualsiasi realtà, non abbia una sua consistenza oggettiva e, quindi, che, nello stesso tempo e nello stesso senso, possa essere come è e diversa da come è?
Altra domanda che mi viene è questa: Con quale strumento possiamo negare la possibilità del nostro intelletto di conoscere la verità “vera” se non col nostro stesso intelletto? Non vi pare che, riconoscendogli la capacità di negare quella possibilità, si cada in una evidente contraddizione? Mi chiedo ancora, e scusate il gioco di parole:”Se è vero che niente è vero, è almeno vero che niente è vero?” Anche qui la contraddizione mi pare evidente! In base a che cosa, poi, si può dire che qualcosa, qualche comportamento o qualche opinione è sbagliata se non contrapponendola a una verità che si ritiene sia oggettiva, unica e, in questo senso, assoluta?
Inoltre, se ciascuno di noi non avesse delle certezze fondate su dati oggettivi, come potremmo svolgere anche le più elementari attività? Come potremmo agire, lavorare, scegliere, prendere qualsiasi decisione? In pratica, come potremmo vivere? Perché, aggiungo, si dovrebbe escludere la possibilità di avere una conoscenza reale e “vera” solo di determinate cose evidenti, ed escludere quella intellettiva dei principi in esse contenuti e estratti (e astratti) col ragionamento, fondato sulla logica e sul principio di non contraddizione? Sulla base di queste considerazioni e delle risposte che si darebbero è lecito negare, sempre e comunque, la possibilità di conoscere le cose, esattamente e oggettivamente, anche se nei limiti della modesta intelligenza umana? Possiamo legittimamente affermare, invece, che, pur avendo l’uomo la capacità potenziale di conoscere la verità oggettiva, questa capacità è limitata e che questa limitatezza è all’origine della nostra ignoranza, dei nostri errori, delle nostre incertezze e delle diversità di opinioni? Non è, forse, la limitatezza della nostra intelligenza che rende il nostro modo di pensare e di agire condizionato dalla influenza della famiglia, dei “media”, della scuola, degli amici, della cultura del nostro popolo e del
nostro tempo?
Le nostre opinioni e certezze, in altri termini, senza niente togliere alla verità oggettiva e assoluta delle cose e dei valori in se stessi, non è anche un fatto soggettivo e psicologico? Se così fosse, non seguirebbe che la verità, quella “vera” e oggettiva, non può che essere una conquista personale e che nessuno, neppure una massima autorità, potrebbe imporla a nessuno? Che cosa vieta, comunque, che se qualcuno dimostrasse con i fatti di essere il Signore Assoluto del creato, non possa essere creduta la Verità che Lui ci presenta? E’ proprio da escludere, inoltre, che errori e dubbi possano essere eliminati confrontandoci con le opinioni degli altri e con la realtà oggettiva? E’ fuori dalla realtà che le nostre concezioni del mondo, della società e di noi stessi possano progressivamente arricchirsi, ampliarsi, modificarsi con l’esperienza, con lo studio, con lo scambio di idee, con la riflessione e col ragionamento?
Perciò, considerata la limitatezza della natura umana, è possibile che ciò che andava moralmente bene per un uomo di 1000 anni fa, non vada più bene per un uomo del XXI secolo, e che ciò che va bene per un indigeno dell’Amazzonia non vada bene per un europeo? E’ proprio impossibile cercare di capire se nelle vicende del passato si scorgano dei valori universali, magari adattati e distorti dalle diverse situazioni, che possono essere trasmessi al futuro? E siamo sicuri, infine, che cercando di eliminare il modo difettoso in cui quei valori sono stati, e sono, applicati, non si possa cercare di realizzare un futuro migliore e che ciò non costituisca la spinta verso il progresso che costituisce la storia umana?