‘Vie en Rose’ mostra bipersonale al blublauerspazioarte
Diciamolo pure: qualche volta, per motivi infiniti e inclassificabili, occorre guardare alla realtà con occhi addolciti da una inaspettata leggerezza dell’animo e della mente. Sono stati di grazia occasionali che traducono il visibile in ironia, umorismo, visionarietà. L’abbandono al sogno o alla giocosità non è segno di deriva o rinuncia all’introspezione, semmai, se si ha la pazienza di guardare al di là dell’immagine rappresentata, si può scoprire una sottile, strisciante, considerazione sull’eterno femminino. Rosaspina è, letteralmente, una spina nel fianco di Roberta Filippelli: una lunga guerra con una capigliatura crespa e indisciplinata dà vita ad una fiaba domestica, una piccola commedia dell’assurdo e dell’azzardo, una follia, tutta al femminile. Alla ricerca di un rimedio miracoloso che vinca lo sconforto dello specchio mattutino, la donna bruna e audace le prova tutte (armamentari improbabili come bigodini o arcaici becchetti, di volta in volta messi in risalto dal fuoco dell’obbiettivo e dall’impaginazione ben progettata) fino alla scoperta miracolosa. Un ammorbidente per capi delicati Petali di rosa promette soluzioni sorprendenti. Basta berlo e aspettare e il risultato è assicurato. Una nuova forma e un nuovo colore possono cambiare la vita e il rosa shocking dei capelli ammansiti e ammiccanti è un trampolino di lancio per una svolta senza precedenti. Il racconto, ludico e surreale, costruito con un’iconografia da rivista demodé e dozzinale è un’operazione che, tra pop e kitsch, riflette la contaminazione ambigua e contraddittoria dei tempi attuali. Roberta Filippelli, in recita solitaria, gioca con la femminilità stereotipata, e assume su di sé gli aspetti intimi e ossessivi in un ostentato bisogno di condivisione perché anche i capelli possono diventare una questione di feeling.
“Vie en rose” è, invece, per Francesca Randi, una felice conquista di autonomia, di libertà, di spazi fisici e mentali. La narrazione, che costruisce con scatti-emblema di un percorso iniziatico, posso leggersi in più direzioni e non necessariamente dalla prima immagine. Consiglio, al contrario, di partire, per questo viaggio nell’intimità, dall’ultima visione, quella dove, nella vastità di una distesa naturale inondata di luce, una figura femminile si avvia sicura nel sentiero ben tracciato verso l’orizzonte. A ritroso si può scegliere di leggere disordinatamente le composizioni fotografiche come pagine di un diario che congelano la vulnerabilità, l’imperfezione e persino l’arroganza di quell’età provvisoria che è l’adolescenza. La “mise en scène” di Francesca Randi procede per frammenti di una sceneggiatura già scritta nel proprio vissuto ma leggibile, ciascun fotogramma, come quadri intimisti di altrettanti momenti della vita di ognuno. Un lessico familiare, declinato al femminile, verso l’età adulta. Desideri e frustrazioni, ribellioni e richieste soffocate, creano un precario equilibrio. Gabbie di banalità dove il rosa è il colore della costrizione. Quella sociale che relega entro insulsi ruoli l’incompletezza dell’identità. La sensibile capacità interpretativa di Francesca Randi, di rendere tangibili le condizioni dell’animo, è dunque offerta da questo racconto delicato e incisivo, in realtà enigmatico e ansioso, dove l’unica via d’uscita va cercata nel coraggio della mente e dell’immaginazione. Immagini che proseguono nello sguardo dello spettatore.