Welcome to Kabul
Leggere che un nuovo International Women’s Film Festival è stato inaugurato in occasione dell’ultima Festa della Donna e che alla sua prima edizione ha già attirato 30 film provenienti da 20 diversi Paesi sparsi per il mondo, non sembra poi una grande notizia. Ma se quel nome di per sé poco indicativo è preceduto dalla sua sede, e la sua sede è Herat, in Afghanistan, allora è un’altra storia. Quella non raccontata di un Paese che, per quanto carico di contraddizioni e difficoltà – e non potrebbe ancora essere altrimenti –, non si riconosce nell’immagine che vede tracciata dai media Occidentali.
L’idea che serpeggia nell’opinione pubblica tanto in Europa quanto al di là dell’Atlantico è infatti che l’Afghanistan sia, più che una guerra, una causa persa e che dopo oltre undici anni di caduti, spese incalcolabili, corruzione e macerie, la sola cosa da fare sia rassegnarsi e percorrere il sentiero che conduca ad una rapida exit strategy. L’Afghanistan come l’Iraq, frutto di un’epoca cominciata sull’onda emotiva dell’11 Settembre ma che ormai si trascina stancamente e che tanto vale concludere. Giusto? Sbagliato. L’Afghanistan di oggi è una nazione in rapida evoluzione, che ha cominciato a premere sull’acceleratore dopo aver faticosamente superato l’attrito di prima distacco rispetto alla condizione di sonno profondo in cui il regime dei Talebani l’aveva costretta. Il Paese asiatico non è certamente la Svizzera, con cui probabilmente ha in comune ben poco oltre la mancanza di sbocchi sul mare, ma l’Herat International Women’s Film Festival rappresenta solo un piccolo tassello in un puzzle ben più articolato e complesso che si sviluppa partendo da Kabul.
Come si è trasformato l’Afghanistan a partire del rovinoso crollo dei Talebani alla fine del 2001? A rispondere senza la retorica delle parole sono le cifre, rilasciate sempre in sordina e passate inspiegabilmente sotto traccia, che sono contenute in numerosi report e analisi di istituzioni internazionali tra cui World Bank, UNESCO, International Monetary Fund. Partendo dagli aspetti sociali prima ancora che da quelli economici, la popolazione Afghana è cresciuta da 22,8 milioni ca. (2002) a 32 milioni ca. (2012), segnando in un decennio un aumento percentuale superiore al 40%. A fronte di un tasso di nascite rimasto essenzialmente costante e di una immigrazione prossima allo zero, i fattori che hanno prodotto un simile boom demografico sono da ricercarsi nelle pieghe di altri due parametri molto significativi: il numero di decessi infantili (entro i 5 anni) e l’aspettativa di vita. Mentre il primo indicatore è infatti diminuito – pur rimanendo tra i peggiori su scala globale – da 145 a 97 ogni 1000 nati vivi, la seconda viceversa si è sensibilmente estesa dai 43 anni del 2001 ai 62 di oggi, così come indicato nelle stime del locale Ministero della Salute il quale rileva, inoltre, che nello stesso arco temporale i 450 presidi sanitari inizialmente disponibili hanno progressivamente raggiunto quota 1800. Traducendosi in quell’evidente drastico miglioramento delle condizioni di salute che il popolo afghano sta sperimentando.
Di pari passo con la sanità, cambiamenti altrettanto importanti sono in corso nell’istruzione e nell’educazione. Uno su tutti il tasso di alfabetizzazione, passato dall’11% del 2002 all’attuale 33%, che stime dell’UNESCO collocano al 60% nel 2025 ed al 90% entro il 2040. E se sotto il regime del Mullah Omar gli studenti (esclusivamente maschi) erano circa 900mila, nelle scuole sorte ovunque nel Paese oggi le classi contano oltre 8 milioni di iscritti – di cui circa 2,6 milioni sono ragazze. Analogamente il grado di apertura al mondo esterno e la possibilità di accesso alla cultura fotografano un Afghanistan ormai lontanissimo dalle censure quello che l’integralismo islamico imponeva. Innanzitutto, radio e televisioni. Nel 2001 la sola Radio Voice of Sharia e l’unico canale televisivo disponibile trasmettevano contenuti confezionati dalla propaganda talebana; l’edizione online aggiornata del World Factbook – pubblicazione open source della CIA – riporta che oltre alla rete di canali televisivi e radiofonici operati dalla TV di Stato si contano circa 150 stazioni radio e 50 emittenti televisive private, integrate da 12 broadcast internazionali con sede nel Paese. Risultato: il 60% degli Afghani guarda la televisione ed il 95% ascolta la radio. Nell’ambito delle ICT (telefonia ed internet), un Paese che all’epoca contava non più di 10mila linee fisse e nessun utente mobile o con accesso ad internet oggi annovera circa 2 milioni di persone che si connettono regolarmente al web, ed un numero di linee mobili attive pari a 20 milioni. Parallelamente alle infrastrutture digitali, quelle tradizionali decisamente più tangibili come strade, ferrovie ed aeroporti hanno seguito un simile sviluppo. I 2800 km di strade asfaltate sono diventati oltre 12mila, è stato intrapreso un ambizioso progetto per la costruzione di 2mila km di rotaie dotando così finalmente il Paese di una ferrovia (fino al 2002 esisteva un unico tratto lungo 25 km), ed infine gli aeroporti con piste asfaltate sono quasi triplicati passando da 10 a 29.
A fronte di questi dati, l’Afghanistan ha tuttavia un’economia che genera un PIL ancora molto modesto calcolato intorno alla soglia dei 20 miliardi di dollari nel 2012, attestandosi cioè su valori comparabili con quelli dell’Estonia o della sola Umbria. Ma se il totale è certamente poca cosa in valore assoluto, rappresenta comunque una crescita economica impressionante considerando che nel 2001 toccava a stento i 2 miliardi di dollari. Per i cittadini afghani tutto questo si è tradotto in un pil/pro-capite annuo che nello stesso lasso di tempo è aumentato da 92$ a 620$. Le previsioni tratte dal più recente World Economic Outlook dell’IMF stimano che nei prossimi cinque anni i trend proseguiranno, portando il Paese ad un PIL di oltre 28 miliardi di dollari ed un pil/pro-capite di 770$ all’anno.
Kabul, nel 2012 quinta città al mondo per tasso di espansione, è la capitale di una nazione avviata lungo il percorso di una radicale e profonda trasformazione, sociale prima ancora che economica e pertanto difficilmente arrestabile. L’età media della popolazione non arriva a 18 anni, il che significa che una larga maggioranza di essa è crescita in questi ultimi undici anni sviluppando una visione del mondo ed acquisendo una cultura che non sono semplicemente inconciliabili, bensì diametralmente antitetiche con quelle integraliste. Nel Paese, che per inciso registra una proporzione di donne parlamentari maggiore rispetto a quella del Congresso statunitense, il consenso dei Talebani su scala nazionale non arriva al 10%, toccando punte che non superano il 30% nemmeno nella loro roccaforte di Kandahar.
In conclusione, l’Afghanistan di oggi è certamente ben lungi dall’essere un Paese prospero e lussureggiante. La sua fragile ripresa economica di fatto poggia ancora molto pesantemente sui massicci flussi di capitali che giungono sotto forma di aiuti internazionali. Le sfide socio-economiche che si trova davanti sono così difficili e complicate dal contesto geopolitico, che servirebbe molto più spazio per presentarle perfino superficialmente. Ciononostante altrettanto ben lontana è tuttavia anche l’immagine di una scatola di sabbia e montagne senza speranze, pronta a collassare precipitando nelle mani dell’integralismo non appena l’ultimo soldato straniero avrà lasciato il Paese nel dicembre 2014. India e Cina lo hanno compreso e hanno recentemente deciso di avviare ingenti programmi di investimento a lungo termine nel Paese centro asiatico: con 7 collegamenti aerei giornalieri tra Dubai e Kabul l’Afghanistan è diventato la terza destinazione per i viaggiatori in partenza dall’emirato – preceduto solo da Kuwait e Qatar. Alle soglie di elezioni presidenziali che l’anno prossimo potrebbero dare forma al futuro dell’intera regione, per l’Occidente adesso sgattaiolare in tutta fretta fuori dall’uscita di servizio sarebbe la conclusione più miope ed ottusa dopo anni di impegno a senso unico.
Matteo Guillot è Ufficiale della Marina Militare e Dottore in Scienze Marittime e Navali (Università di Pisa)